LOTTA ALL'INFLAZIONE
Banche centrali e global slowdown

Ulteriori aumenti dei tassi di interesse potrebbero avere effetti fortemente negativi sia sull’economia reale che sul sistema finanziario. Meglio un sano “wait and see” che continui a monitorare il percorso di discesa dell’inflazione, mantenendo ancora per qualche mese tassi che sono comunque i più elevati di sempre nell’Eurozona e degli ultimi 20 anni negli USA

Giorgio Di Giorgio

La terza decade del nuovo millennio sarà ricordata a lungo per aver visto la realizzazione di una serie continuativa di eventi sfavorevoli, sia pure di entità e portata diversa. Il primo, il più rilevante, la crisi sanitaria ed economica innescata dalla pandemia da Covid 19. Il secondo, la crisi energetica che ha contribuito pesantemente, insieme ad altri fattori, al ritorno di un’inflazione a due cifre in tanti paesi del globo. Il terzo, l’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, con la spinta ulteriore ad una pericolosa ri-segmentazione dell’economia mondiale e il ritorno a una maggiore frammentazione delle catene produttive.

Le turbolenze finanziarie innescate da eventi quali il crollo delle cripto e i fallimenti di alcune banche regionali negli USA prima, della prima banca sistemica globale in Svizzera poi, hanno evidenziato le fragilità di un sistema finanziario a lungo “drogato” dall’eccesso di liquidità e dagli eccezionalmente bassi livelli dei tassi di interesse.

L’azione delle banche centrali è stata immediata ed efficace durante la pandemia, riuscendo ad evitare danni di entità ancora superiore in termini di caduta del PIL rispetto alla forte recessione che ha in ogni caso colpito nel 2020 tutte le economie. In particolare, ha tenuto relativamente bene il mercato del lavoro, anche grazie agli importanti stimoli fiscali messi in campo dai governi.  

L’azione delle banche centrali è stata invece tardiva nel contrastare una ripresa dell’inflazione che non si è riusciti ad anticipare nella sua intensità e a comprendere e moderare nelle sue cause. Gli aumenti dei tassi di interesse decisi da FED, BCE e dalle principali altre banche centrali sono stati molto rapidi e rilevanti da un punto di vista dimensionale, seppure appunto tardivi rispetto al momento in cui avrebbero dovuto iniziare. Hanno naturalmente frenato una ripresa ancora non robusta e alimentato fragilità finanziarie che fin qui, fortunatamente, non hanno prodotto diffuse crisi finanziarie.

Purtroppo, è ancora presto per tirare un sospiro di sollievo e l’ulteriore tensione generata dall’attacco di Hamas ad Israele e dalla prevedibile forte reazione militare dello stato ebraico non è sicuramente confortante. Di fatto, il Fondo Monetario Internazionale ha ridotto ulteriormente le previsioni di crescita dell’economia mondiale sia per il 2023 che per il 2024, collocandole rispettivamente al 3% e al 2.9%, con i paesi industrializzati che in media contribuiscono per solo l’1.5%, a fronte di una dinamica dei paesi emergenti intorno al 4% nel biennio.

Questi numeri evidenziano una distanza notevole rispetto alla media (3.8%) della crescita mondiale sperimentata nel primo ventennio del nuovo millennio, obiettivamente in parte aiutata dai primi 6 – 7 anni che hanno preceduto la crisi finanziaria internazionale dei mutui subprime, caratterizzati da performances davvero roboanti, in particolare nei paesi emergenti. Gli stessi paesi che oggi sono quelli principalmente a rischio di stress finanziario e di crisi di debito per via della minore crescita, dell’aumento degli oneri finanziari e del flight to quality. Il Fondo stima che circa la metà dei paesi emergenti si trova oggi in default o rischia di trovarcisi nei prossimi mesi.

Lo slow down dell’economia mondiale è il nuovo quadro di riferimento cui devono con prontezza guardare le banche centrali per definire le nuove strategie di politica monetaria, in una via stretta tra la necessità di continuare a far scendere l’inflazione senza portare in recessione l’economia.

Infatti, quasi ovunque lo spazio della politica fiscale appare severamente limitato dagli elevati livelli raggiunti dal debito pubblico a seguito dei forti interventi di sostegno adottati durante la pandemia e per far fronte all’impatto della crisi energetica e contenere i costi delle famiglie e delle imprese. A questo si aggiunge la forte crescita registrata dal debito privato, stimolata anche da condizioni di tasso estremamente favorevoli.

Ulteriori aumenti dei tassi di interesse in questo contesto potrebbero avere effetti fortemente negativi sia sull’economia reale che sul sistema finanziario, a fronte di un’inflazione che, seppure con una certa lentezza, sta comunque scendendo verso valori coerenti con gli obiettivi delle banche centrali.  

La tentazione di dare ancora un ulteriore segnale di forte attenzione all’inflazione, alzando anche solo di altri 25 basis points i tassi di policy, negli USA come nell’Eurozona, sarebbe fuori luogo ora e rischierebbe di innescare ansie e preoccupazioni pericolose sui mercati finanziari, impattando negativamente sul clima di fiducia di imprese e consumatori, già provato dagli sconvolgimenti politici cui si assiste e dalla stagnazione di molte economie. Meglio un sano “wait and see” oggi, che continui a monitorare il percorso, ormai avviato, di discesa dell’inflazione, mantenendo ancora per qualche mese un livello dei tassi di interesse che ha comunque raggiunto i livelli più elevati di sempre nell’Eurozona e degli ultimi 20 anni negli USA. 

L’attuale livello dei tassi di interesse sembra del tutto compatibile con la graduale discesa dell’inflazione ai livelli desiderati. La stabilizzazione dei tassi per due o tre trimestri consentirebbe una migliore pianificazione delle scelte di consumo, risparmio e investimento di famiglie ed imprese e l’adozione di misure di debt management ponderate ed efficaci da parte di governi e debitori privati. Non è certamente il momento di ridurre i tassi di interesse per le banche centrali, ma neanche quello per accelerazioni ulteriori dettate da rigidità e fiducia eccessiva nel mantra della comunemente accettata definizione “numerica” di stabilità dei prezzi.