In Italia la relazione rimane molto stretta, ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato. E le novità sono importanti. Non decisive tuttavia per garantire al nostro sistema economico un grado di resilienza adatto ad affrontare congiunture così negative come quella recente.
La relazione tra banca e impresa è in Italia più stretta che nel resto d’Europa. Nell’ambito dell’eurozona, il nostro è tra i pochissimi paesi in cui i finanziamenti bancari alle imprese eccedono i prestiti alle famiglie. Posto pari a 100 il totale del credito alle famiglie, a fine 2016 i prestiti alle imprese risultano in Italia pari a 127. Ben diversa la situazione altrove: 50 nei Paesi Bassi, 60 in Germania, 64 in Belgio, 76-77 in Francia e Spagna, 75 nella media dell’area euro. Nell’arco degli ultimi 5 anni (dicembre 2011), il rapporto registra quasi ovunque una riduzione, in alcuni casi clamorosa (in Slovenia da 214 a 101), in altri casi appena accennata (3-4 pp in Francia e Germania). In Italia la flessione è pari a 20 pp (da 147 a 127), poco meno della Spagna (-23 pp), quasi il doppio di quanto registrato nella media dell’eurozona (10,5 pp).
La specificità italiana si ritrova anche sul lato opposto della relazione, se cioè si guarda all’importanza della banca per l’impresa. Nella media dell’area euro i prestiti bancari costituiscono il 68% delle passività esterne delle imprese (Eurostat, 2015, ultimi annuali disponibili); con il 73% l’Italia si posiziona 16 punti circa al di sopra di Francia e Germania ma al di sotto di altri paesi tra i quali Paesi Bassi (77%), Belgio e soprattutto Spagna (86%). Nell’ultimo quinquennio l’apporto dei prestiti bancari al totale delle passività esterne ha subito nell’area un ridimensionamento medio di 4 punti percentuali, un processo che ha determinato anche una limitata attenuazione delle differenze tra i diversi Paesi (-0,8 pp per Germania, -6 pp per l’Italia).
Ovviamente questa “dipendenza” dal circuito bancario varia fortemente in funzione della dimensione dell’impresa, risultando molto contenuta per le grandi imprese. Gli approfondimenti di Mediobanca mostrano che già per le medie imprese il finanziamento bancario arriva a coprire il 90% del fabbisogno complessivo, con pochi segnali di diminuzione nell’ultimo decennio.
I maggiori mutamenti della struttura finanziaria delle imprese verificatisi negli ultimi anni sono stati da un lato il rafforzamento della dotazione patrimoniale, dall’altro lato la più intensa attività di emissione di titoli di debito. Entrambi questi movimenti sono stati condivisi da tutti i paesi del vecchio continente, seppure con diversa intensità.
Per quanto riguarda l’incidenza del patrimonio sul totale delle passività l’Italia (52,3% nel 2015) registra nell’ultimo quinquennio un incremento importante (quasi 5 pp vs i 4pp della media dell’eurozona). Rispetto a molti dei principali paesi dell’area (Francia esclusa) il nostro Paese propone però una vistosa differenza: si trova oltre 5 punti percentuali al di sotto del dato prevalente nel triennio precedente lo scoppio della crisi; nel caso della Germania, invece, lo stesso confronto si chiude con un saldo attivo di oltre 3 punti percentuali. In effetti, malgrado il recupero degli ultimi anni (+€313 mld tra 2011 e 2015), la dotazione patrimoniale delle nostre imprese risulta complessivamente ancora di circa 70 miliardi inferiore a quella media del triennio pre-crisi. Lo stesso confronto si chiude altrove con un risultato ben diverso: +690 mld nel caso della Germania, +225 mld per la Francia, +260 mld per il Belgio, +180 mld per l’Olanda, +90 mld per la Spagna. Questi dati confermano nuovamente che la crisi economica ha segnato la struttura economico-patrimoniale delle imprese italiane più profondamente di quanto riscontrabile in gran parte del resto dell’Europa.
Altra importante novità nel profilo finanziario delle imprese è occupato dal finanziamento diretto sul mercato. Tra il 2007 e il novembre 2016 lo stock dei corporate bond in circolazione nell’area euro è di fatto raddoppiato raggiungendo i 1.200 mld di euro. La crescita si è concentrata totalmente nel segmento dei titoli a più lungo termine, con i titoli a breve scadenza in deciso ridimensionamento (non solo relativo ma anche assoluto).
Favorita dalle politiche monetarie accomodanti della Bce, l’attività di emissione ha conosciuto un forte sviluppo in tutto il vecchio continente riscontrando un deciso interesse tra gli investitori impegnati a contenere le ricadute dell’estendersi dei rendimenti negativi nel campo dei titoli pubblici.
L’Italia è sicuramente tra i paesi in cui l’attività di emissione dei titoli corporate ha registrato una crescita particolarmente intensa. Rispetto alla situazione pre-crisi 2008-09, a fine 2016 lo stock dei titoli societari risulta aumentato in Italia del 97%. A fine 2015 (Eurostat, ultimo annuale disponibile) il contributo dei corporate bond al finanziamento delle imprese risultava in Italia pari all’11% circa, poco meno della media dell’eurozona (12%). Il dato medio dell’eurozona scende però all’8% se si esclude il dato della Francia (26%). In Germania il contributo dei corporate bond al finanziamento delle imprese si ferma al 7,3%.
In termini assoluti, il mercato italiano risulta (novembre 2016) una volta e mezza quello olandese, oltre due volte quello belga, quattro volte quello spagnolo, non molto inferiore rispetto a quello tedesco (differenza di circa €25 mld).
Oltre che per la crescita dei volumi, il mercato italiano dei bond societari si segnala negli anni più recenti per l’importante allargamento della platea degli emittenti, un risultato cui ha contribuito certamente il rapido sviluppo del mercato dei cosiddetti minibond, il cui avvio risale a circa quattro anni fa (Decreto Sviluppo, DL 83/2012).
In Germania il verificarsi di un certo numero di default ha recentemente depresso l’interesse per le nuove emissioni; in Italia questo non è avvenuto sia perché il mercato è riservato ai soli investitori professionali (con esclusione quindi del retail, ammesso invece in Germania), sia perché sono decisamente pochi i casi di difficoltà tra gli emittenti (mercato più giovane e/o più efficace capacità di selezione).
Da novembre 2012 alla fine dello scorso anno risultavano effettuate 292 emissioni di minibond per un valore di €11,5 mld, importo significativo ma non ancora tale da condizionare il circuito di finanziamento delle imprese italiane che (tra prestiti e titoli) ha una dimensione di €950-1.000 mld.
In termini di ammontare il mercato dei minibond è dominato dalle emissioni di taglia elevata (le 47 emissioni al di sopra dei €50 mln ne rappresentano oltre l’80%).
Considerato il profilo della struttura imprenditoriale italiana, particolarmente importante è l’altra parte del mercato, quella costituita dalle 245 operazioni di importo non superiore a €50 mln (complessivamente €2 mld circa). Più della metà di queste emissioni è sotto la soglia dei €5 mln. Lo scorso anno tra le 88 imprese emittenti, 74 erano alla loro prima esperienza. Tra le società che in questi anni si sono affacciate sul mercato la metà ha un fatturato inferiore ai €50mln e tra esse 1 su 3 realizza ricavi non superiori a €10 mln. Per il 54% delle emissioni il rimborso avviene integralmente a scadenza (bullet), per il resto delle emissioni progressivamente nell’arco della durata del titolo. La durata media è di poco inferiore ai 6 anni, con una tendenza all’allungamento della scadenza (un quinto circa delle emissioni del 2016 aveva durata superiore a 7 anni). Da segnalare, inoltre, il crescente interesse degli investitori esteri, cui è attribuibile circa un terzo della domanda.
Metà dei titoli offre un rendimento annuo superiore al 5,4% (nel 2016 cedola media del 4,9%), più del doppio quindi di un paragonabile finanziamento bancario1 .
Quest’ultima notazione suggerisce due considerazioni: a] non è il costo il fattore di attrazione di un minibond, b] il potenziale di crescita di questo canale di finanziamento è presumibilmente elevato, considerato che lo sviluppo fin qui registrato è stato realizzato a fronte di una capacità concorrenziale del circuito bancario decisamente accresciuta dalle generose politiche della Bce.
Tra i molti capitoli di cui si compone il rapporto banca-impresa in Italia quello dei prestiti deteriorati occupa da qualche tempo un posto decisamente centrale. Per una lettura adeguata del problema è opportuno procedere su due piani diversi: il primo è quello del flusso dei nuovi prestiti deteriorati, il secondo quello della riduzione dello stock già in essere.
Per quanto riguarda il primo profilo è da tempo in atto un evidente processo di riduzione: all’ultima rilevazione (settembre 2016) il cd. tasso di decadimento dei prestiti alle società non finanziarie (rapporto tra nuove sofferenze e prestiti non in sofferenza all’inizio del periodo) è risultato pari al 3,7%, un livello ancora patologico (2-3 volte quello fisiologico) ma tuttavia sensibilmente inferiore alla punta del 4,7% di circa due anni prima.
Si tratta inoltre di una frequenza suscettibile di ulteriore riduzione in un futuro ravvicinato. Il quadro informativo sulla salute economico-finanziaria delle imprese italiane, infatti, lascia intravedere un coerente seppure moderato processo di miglioramento in atto. Tra le tante indicazioni: l’attenuarsi del deterioramento della qualità dei prestiti comincia a coinvolgere anche i settori in maggiore difficoltà (costruzioni e attività immobiliari); durante lo scorso anno solo quattro dei 13 comparti del manifatturiero hanno registrato un calo di attività; la combinazione di minori oneri finanziari-migliore andamento del fatturato ha ridotto la frequenza delle imprese in perdita (comunque ancora elevata rispetto alle medie storiche); il processo di revisione del rating condotto periodicamente dal Cerved su oltre 500mila società italiane propone, per la prima volta dal 2011, un saldo positivo tra movimenti in direzione positiva (upgrading) e correzioni in direzione sfavorevole (downgrading). La differenza pari al 2,5% ad aprile 2016 risulta salita all’8% nel settembre successivo.
Si deve anche aggiungere che gli interventi normativi predisposti negli ultimi due anni promettono per le nuove sofferenze tempi di smaltimento più stretti e quindi percentuali di recupero più alte.
Per quanto riguarda lo stock già accumulato di prestiti irregolari, alle società non finanziarie possono essere ricondotte ¾ circa delle sofferenze e una quota simile dei prestiti non performing presenti nei bilanci delle banche italiane (leggasi 140 e 235 mld di euro, rispettivamente).
Oltre che conseguenza di carenti politiche di gestione, si tratta evidentemente del lascito della negativa congiuntura economica degli ultimi anni. Secondo stime della Banca d’Italia in assenza della crisi la crescita economica in Italia tra il 2008 e il 2015 sarebbe stata ogni anno più elevata di circa 1,5 punti percentuali, con rilevantissime ricadute sulla qualità del portafoglio prestiti alle imprese: nel 2015, sofferenze lorde intorno a €50 mld invece dei 140 mld effettivamente registrati. Da un’altra simulazione emerge che se i tempi di recupero in Italia fossero allineati a quelli medi europei l’incidenza delle sofferenze sul totale dei prestiti sarebbe oggi pari a circa metà di quella rilevata.
Le perplessità espresse da una parte degli analisti sul valore attribuito nei bilanci ai prestiti deteriorati hanno molto contribuito alle forti oscillazioni dei titoli bancari italiani registrate nell’ultimo anno. Con un suo recente documento[I tassi di recupero delle sofferenze, Note di stabilità finanziaria e vigilanza n. 7, gennaio 2017] la Banca d’Italia ha quindi ritenuto opportuno fissare alcuni punti fermi in materia. Il documento analizza in profondità le condizioni a cui sono stati chiusi nel decennio 2006-15 quasi 1,7 milioni di prestiti andati in sofferenza (€88 mld il loro ammontare lordo).
Una delle evidenze maggiori che se ne ricavano è che l’entità dei possibili recuperi dipende largamente dall’approccio aziendale al problema. Per il portafoglio considerato nello studio, il recupero è stato in media pari al 43%, un tasso che nell’arco del decennio è variato sensibilmente (49% nel biennio 2009-10, 35% circa nel biennio più recente caratterizzato da un numero di chiusure molto più elevato). L’ammontare dell’effettivo recupero risulta sensibilmente diverso in relazione alle modalità di gestione dell’operazione, con un consuntivo doppio nel caso di gestione diretta (47%) rispetto al recupero affidato a terzi (23%).
Sul risultato finale incide fortemente la qualità della gestione aziendale: le banche più efficienti sono riuscite (a parità di altre condizioni) a conseguire (nell’arco del decennio) un tasso di recupero di circa 14 punti superiore a quello medio, quelle meno efficienti pagano i loro ritardi posizionandosi quasi altrettanto al di sotto di questa soglia. Questa differenza, sempre consistente, risulta in crescita negli ultimi due anni considerati nell’analisi (2014-15) in conseguenza soprattutto dei progressi degli istituti “migliori”.
A fine settembre 2016 il 29% dei prestiti alle imprese (e famiglie produttrici) risultava in sofferenza o presentava un rischio di mancato rimborso (280 mld su un totale di 948). La gestione di questa zona del portafoglio prestiti condiziona quindi in ampia misura la redditività (se non addirittura la sopravvivenza) di un ampio numero di banche italiane. Una rilevazione (inizio del 2016) segnala che consapevolezza solo parziale di questa importanza: circa un terzo (40% in valore) dei crediti deteriorati risulta gestito da uffici legali (interni o esterni all’istituto credito), un altro 41% (20% in valore) è affidato a società esterne di recupero crediti. Solo il 27% (41% in valore) risultava preso in carico da una struttura interna dedicata per cercarne la migliore valorizzazione.
Nei mesi più recenti quest’ultima soluzione comincia ad essere adottata con crescente frequenza. La dimensione dell’azienda di credito condiziona in misura non secondaria le modalità del processo di recupero di un portafoglio di prestiti deteriorati. Le unità organizzative impegnate nella gestione di queste situazioni (o anche nell’attività di recupero) hanno una taglia minima che per un insieme non piccolo di aziende di credito risulta comunque sproporzionata. Per le banche che superano questa soglia, se non già avvenuto, il passaggio ad una gestione diretta/attiva del problema è il passo da compiere.
1Il tasso d’interesse richiesto ad una società non finanziaria per un nuovo finanziamento di ammontare superiore a €1 mln con durata oltre 5 anni risultava a fine 2016 inferiore al 2%.