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Autonomia differenziata e sanità: una strada rischiosa per l’Italia

Mentre si avvia il processo di autonomia differenziata per le regioni a statuto ordinario, è utile riflettere su come ha funzionato la regionalizzazione per la sanità. E il bilancio è tutt'altro che positivo* 

Vincenzo Carrieri
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L’Italia si avventura su un terreno insidioso: la legge n. 86 del 26 giugno 2024 segna l’avvio ufficiale del processo di autonomia differenziata per le Regioni a statuto ordinario. Un cambiamento potenzialmente dirompente, che ricalca un modello già in parte sperimentato: quello della sanità, oggi largamente regionalizzata. Ma proprio questo esempio, che avrebbe dovuto ispirare fiducia, finisce per suscitare forti preoccupazioni. Il sistema sanitario decentrato italiano ha acuito le diseguaglianze anziché ridurle. E la lezione è chiara: se l’autonomia non è accompagnata da correttivi strutturali, rischia di trasformarsi in un boomerang per la coesione nazionale.

Sanità: il laboratorio del decentramento

La sanità pubblica italiana assorbe oltre il 7% del PIL, con più del 70% della spesa gestita dalle Regioni. A vent’anni dalla riforma del Titolo V, è possibile trarre un bilancio: la devoluzione ha prodotto un sistema frammentato, dove la qualità dell’assistenza varia drammaticamente da Nord a Sud. La pandemia di COVID-19 ha rivelato plasticamente la debolezza di un sistema privo di un’infrastruttura informativa centralizzata: mancanza di interoperabilità, scarsa condivisione dei dati, ritardi nel Fascicolo Sanitario Elettronico. Il risultato? Decisioni scoordinate e inefficienze.

L’illusione dei LEA

I Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) dovrebbero garantire a tutti i cittadini gli stessi diritti sanitari. In realtà, la loro attuazione è estremamente disomogenea. Le regioni meridionali, come Calabria e Campania, risultano spesso inadempienti. Le disuguaglianze si riflettono anche nella percezione dei cittadini: meno del 30% dei residenti del Sud si dice soddisfatto dell’assistenza ospedaliera, contro oltre il 70% al Nord. La mobilità sanitaria – pazienti che migrano dal Sud al Nord per curarsi – è l’indicatore più eloquente: Campania e Calabria presentano saldi negativi miliardari, mentre Lombardia ed Emilia-Romagna beneficiano di un afflusso di risorse e pazienti.

Inefficienze e Finanziamento squilibrato

Non v’è dubbio che una parte consistente delle risorse destinate alla sanità sia stato male impiegato in molte regioni, soprattutto quelle meridionale. C’è però anche una questione non analizzata sufficientemente che sta nel meccanismo di finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale. Per anni, la ripartizione delle risorse si è basata principalmente su criteri demografici, ignorando le profonde differenze socioeconomiche che incidono sulla morbilità e sulla domanda di cure.

Solo nel 2022 è stato introdotto un sistema più sofisticato, che considera anche fattori come povertà, scolarizzazione e disoccupazione. Ma il ritardo è stato fatale: le Regioni più fragili sono state penalizzate, ricevendo meno fondi pro capite, e obbligate a piani di rientro che hanno tagliato personale e posti letto, con effetti documentati sull’aumento della mortalità evitabile.

Il modello inglese: un esempio virtuoso

Nel Regno Unito, l’allocazione delle risorse avviene da anni attraverso una formula complessa ma equa, che integra dati demografici, socioeconomici e di salute. Questo ha permesso di incrementare le risorse nelle aree svantaggiate e di ridurre le disuguaglianze di salute, come dimostrano gli studi sugli effetti positivi della redistribuzione delle risorse del NHS. È una strada che l’Italia dovrebbe considerare con attenzione, se vuole coniugare autonomia e coesione.

Autonomia senza solidarietà è un rischio per tutti

L’ interrogativo cruciale è se è davvero possibile garantire livelli uniformi di servizi pubblici in un contesto di maggiore autonomia regionale, senza un robusto sistema perequativo e un forte coordinamento centrale. La risposta, osservando i dati, è tutt’altro che rassicurante. L’autonomia differenziata, così come concepita oggi, rischia di cristallizzare e aggravare le disuguaglianze territoriali.

Una riforma da non sbagliare

Il decentramento può produrre efficienza solo se le Regioni hanno capacità amministrative e gestionali adeguate. Ma in Italia, dove il Mezzogiorno mostra ancora gravi limiti nella gestione dei fondi pubblici e nell’efficienza delle politiche sanitarie, affidare maggiori poteri senza prima colmare i divari significa abbandonare le Regioni più fragili al proprio destino. L’autonomia, se mal calibrata, rischia di diventare uno strumento di frammentazione e non di progresso.

Conclusione: un bivio per il Paese

La sanità è solo la punta dell’iceberg. L’istruzione, i trasporti, l’ambiente sono altri settori in cui l’autonomia potrebbe far sentire il proprio peso. L’Italia si trova oggi a un bivio: procedere lungo la strada del decentramento cieco oppure disegnare un sistema in cui l’autonomia sia accompagnata da una reale volontà di ridurre le diseguaglianze, attraverso strumenti di monitoraggio, meccanismi di redistribuzione, e un forte presidio dello Stato centrale. Perché un Paese che rinuncia all’universalità dei diritti rischia di rinunciare alla propria coesione.

*La versione integrale di questo articolo è pubblicata sul n°1/2025 di Economia Italiana

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