RISPOSTE ALLA CRISI/ L'AUMENTO DEGLI NPL 2
Attrezziamoci subito per i flussi che verranno

INTERVISTA A MARIA TERESA BIANCHI

Ci dovremmo porre il problema del come gestire i nuovi flussi che verranno, dice la presidente di Rev, la bad bank controllata dalla Banca d'Italia. E propone una asset management company dedicata alle piccole banche, che con questa crisi sono quelle che soffriranno di più

di Paola Pilati

La crisi economica prodotta dalla pandemia avrà dei riflessi anche sui crediti in sofferenza. E dalle prima stime saranno dei riflessi pesanti. Crif prevede in due o tre anni volumi raddoppiati di UTP-Npl, E&Y un calo del valore dei portafogli fino al 20 per cento, rendendo l’attività di recupero molto meno attraente. Soprattutto, come spiega in questa intervista Maria Teresa Bianchi, docente di economia aziendale alla Sapienza di Roma, e presidente di Rev, la bad bank controllata dalla Banca d’Italia, a essere più colpiti saranno le piccole banche. Che infatti, propone Bianchi, meriterebbero un intervento ad hoc sotto forma di una bad bank dedicata. Ecco l’intervista.

Il 2019 per Rev, a cui sono stati affidati 10 miliardi di crediti in sofferenza di Etruria, Banca Marche, CariFe, CariChieti, è stato un anno positivo, con incassi sul portafoglio crediti di 211 milioni contro i 174 dell’anno precedente. Ma ora l’orizzonte è cambiato: l’economia era già in rallentamento a fine 2019, e ora il crollo dell’attività su tutti i fronti è conclamato. Così l’Italia, che era riuscita faticosamente a ridurre il quantitativo record di crediti deteriorati mettendosi su una strada più virtuosa, rischia di fare il passo del gambero. Qual è lo scenario dal suo punto di osservazione?

«Il rallentamento dell’attività giudiziaria sta già creando delle difficoltà, anche se noi siamo riusciti perfino durante il lockdown a rogitare dossier in stato avanzato. Ora però, con l’ondata di moratorie e di richieste di rinegoziazione dei mutui in bonis concesse ai cittadini, anche chi ha rapporti in sofferenza e aveva rateizzato, o aveva fatto accordi stragiudiziali, ora fa richieste analoghe. Ma gli slittamenti in avanti significano perdite, riduzioni del valore degli asset. Senza considerare il mercato degli immobili: gli affitti sono difficoltosi e gli attivi si sviliscono, soprattutto nel settore turistico. Insomma, lo scenario è piuttosto negativo»

Eppure del rischio di gonfiare i bilanci delle banche con crediti inesigibili non mi pare se ne preoccupi nessuno. Qualcosa si potrebbe fare?

«C’è un problema di fondo, su cui non smetto di insistere: il sistema bancario non ha mai affrontato con la dovuta attenzione la questione del credito problematico. Quando un cliente entra in fase critica, scatta il servizio legale. Mentre la banca dovrebbe lavorare di più prima di arrivare al punto di non ritorno. Lavorare sulla valutazione delle posizioni, sulla possibilità di recuperare la situazione anche con nuova finanza prima che degeneri in una sofferenza. È questa incapacità di monitoraggio da parte delle banche che ha caricato molto il sistema». 

Questa sua preoccupazione mi pare riguardi un comportamento non solo del passato ma anche del presente. Insomma, una scarsa capacità di “fare banca”, aldilà della semplice erogazione del prestito. Se questa è la prospettiva, non dovremmo subito creare un argine per il futuro?

«Esatto, oggi ci dovremmo porre il problema del come gestire i nuovi flussi che verranno. E mi domando se anche da noi non si possa fare come in altri paesi: una asset management company. L’Amco a controllo pubblico, la ex Sga, ha avuto la funzione di andare a recuperare i pacchetti di Utp e Npl nelle crisi degli ultimi anni. Ora occorrerebbe fare un intervento più mirato».

Cosa propone?

«Una struttura dedicata non tanto alle grandi banche, che hanno le loro piattaforme per smaltire i propri pacchetti, quanto alle piccole. Sono queste che soffriranno di più, e hanno bisogno di qualcuno che affronti le criticità che si possono manifestare in modo diverso rispetto alle grandi banche».

Un’altra bad bank? E deve essere pubblica?

«Le linee guida della Ue dicono che è meglio un partenariato pubblico-privato (coinvolgendo il ministero del Tesoro o la banca centrale). Ma finora, purtroppo, per colpa delle legislazioni attuali si vogliono evitare situazioni di bail in, e così di fronte alle crisi che si sono manifestate si sono trovate soluzioni tutte diverse, pensate caso per caso. Invece servirebbe una procedura istituzionalizzata da utilizzare ogni volta che operatori bancari in difficoltà sono soffocati dagli Npl».

La preoccupazione per le banche minori da dove nasce? Non sono loro quelle che hanno sempre vantato il proprio ruolo di banca di territorio, banca di prossimità, la qual cosa sottintendeva la capacità di fare credito con maggiore conoscenza della situazione e quindi il minor rischio di avere brutte sorprese? 

«È vero. Ma oggi, se analizziamo chi sta soffrendo in modo particolare, troviamo il turismo, il commercio al dettaglio, l’artigianato. E cioè proprio la clientela delle banche piccole e medie. Che si trovano improvvisamente con un problema molto più serio di quello delle grandi banche con la clientela corporate. I più piccoli possono rimanere schiacciati, molti rischiano di non riaprire, e tutto questo si ribalta sul sistema bancario».

Lei dipinge uno scenario di “pandemia” di Npl, il cui valore sarebbe bassissimo, visto il difficilissimo recupero…

«Si tratterà di valutare se saranno veri Npl o solo Utp, unlikely to pay, che con il tempo e la concessione di nuova finanza hanno la possibilità di essere recuperati. Torniamo quindi alla necessità di una cultura bancaria in grado di riuscire a coltivare le situazioni che hanno solo bisogno di superare un brutto momento, e non abbandonarle a se stesse. Spesso si tratta di una clientela che ha difficoltà a districarsi nei decreti che vengono emanati e per la quale un consulente sarebbe troppo costoso. Così sta agli operatori bancari, prima di tutto, evitare che quei crediti vadano in sofferenza. Un mestiere che non tutte le banche sono in grado di fare».

Che cosa pensa del crescente peso dello Stato nell’economia? Non si finisce per togliere responsabilità agli operatori? 

«Temo che possa accadere. In un momento come questo andrebbe fatto un programma. Interventi di pura sovvenzione, che non sono inseriti nella cornice di un programma per una ripresa reale, rischiano di diventare solo para-assistenzialismo. Per carità, interventi tampone per evitare la chiusura di attività sono necessari. Ma di fronte ai grandi bisogni del paese, come la scarsa digitalizzazione, l’ammodernamento della rete autostradale, o i collegamenti alta velocità Est-Ovest, è necessario un programma di stile keynesiano, che contempli anche un ritorno degli investimenti e non pura assistenza».

Come valuta la concessione della garanzia statale al prestito di 6,3 miliardi chiesto dalla Fiat sebbene non sia più un’impresa con sede in Italia ma in Olanda e Uk?

«Non è solo la Fiat che ha spostato le sedi legale e operativa in questo o quel paese: lo fanno in tanti per garantirsi stabilità societaria e vantaggi fiscali. Da questo punto di vista, viste le asimmetrie che esistono a livello Ue, potremmo metterci anche noi in grado di attirare la sede di altri operatori. Mi sembra che il tema più spinoso sia invece il fatto che la Fiat, sovvenzionata dallo Stato italiano da sempre e da tutti i governi, motivi questa operazione dicendo che è finalizzata al sostegno della filiera italiana dell’auto. In controluce si potrebbe intravvedere una minaccia: cioè che senza quell’aiuto la filiera possa essere smontata, per cui il governo italiano se ne deve fare carico. In altri termini: visto che l’imprenditore è sovrano, se alla fine dichiara che non è in grado di gestire la filiera, noi che facciamo?».