Durante l'audizione degli esperti in Senato sono emersi alcuni punti critici del testo. Ecco i suggerimenti argomentati dal professor Lener sull'art. 4 e sull'art. 8, cioè sugli emittenti strumenti finanziari diffusi, sulle società con azioni negoziate su MTF, sui quorum agevolati per gli aumenti di capitale
Complessivamente trovo molto apprezzabile il disegno di legge “Capitali”, che presenta una serie di soluzioni, intelligenti e originali, a problemi concreti del mercato italiano dei capitali. Qualcosa, peraltro, credo possa essere rifinito nel corso dell’esame parlamentare.
In particolare, mi riferisco alle proposte seguenti.
Come noto, nel definire il genere «società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio», l’art. 2325-bis c.c. individua due sub-fattispecie: (i) le società con azioni trattate nei mercati regolamentati e (ii) le società con azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante.
Mentre l’individuazione delle prime non pone particolari difficoltà, l’identificazione del perimetro delle seconde è ad oggi rimessa dalla legge alla Consob, che vi provvede (rif. Regolamento Emittenti, art. 2-bis) individuando, da un lato, le modalità di diffusione delle azioni costituenti collocamento presso il pubblico (c.d. requisiti qualitativi), e, dall’altro, i c.d. requisiti quantitativi, ossia la percentuale minima che rende rilevante la partecipazione del pubblico (5%) e la relativa frammentazione degli azionisti (almeno 500 diversi dai soci di controllo).
Le società emittenti azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante costituiscono, oggi, uno scalino intermedio tra società chiuse e società quotate; il che dà ragione dei conseguenti obblighi di trasparenza informativa verso il mercato e di una disciplina di governance adeguata alla rilevante partecipazione del pubblico dei risparmiatori.
Importante impulso alle norme recate dal d.d.l. è stato dato dal Libro Verde su La competitività dei mercati finanziari italiani a supporto della crescita pubblicato dal MEF.
Nella Relazione al d.d.l. Capitali, con riguardo alla riforma della disciplina degli emittenti diffusi ipotizzata all’art. 4, si prende atto (i) del fatto che «l’attuale normativa in materia è caratterizzata dall’esistenza di più discipline parallele (una di derivazione europea connessa agli MTF e ai mercati di crescita delle PMI e l’altra di derivazione nazionale), che insistono proprio su quelle imprese che intendono perseguire un percorso di apertura al mercato dei capitali, creando effetti distorsivi e rappresentando un freno all’utilizzo dei canali di accesso al risparmio»; (ii) della «necessità di una riforma complessiva della disciplina in materia (…) che sia funzionale alla realizzazione di un corretto equilibrio tra esigenza di sviluppo del mercato dei capitali e tutela degli investitori»; (iii) del fatto che il «regime delle “società con azioni diffuse” costituisce un unicum a livello europeo e rappresenta un regime intermedio tra quelli delle società quotate su “mercati regolamentati” e non quotate sui medesimi».
Sulla base di queste premesse, il d.d.l. Capitali, nel riformare la disciplina degli emittenti strumenti finanziari diffusi, di cui all’art. 4, non configura le società c.d. “diffuse” come società aperte, intermedie tra le società quotate e le società c.d. “chiuse”, in quanto non le tratta più (necessariamente) come società che si rivolgono al mercato del pubblico risparmio, coinvolgendolo nell’azionariato in misura rilevante. Lo si comprende da almeno due elementi.
In primo luogo, l’art. 4, comma 1, lett. d), d.d.l. Capitali abroga l’art. 116 TUF, in tal modo eliminando, tra l’altro, gli obblighi relativi alle comunicazioni al pubblico e a Consob di cui agli artt. 114 e 115 TUF. Cessa quindi la trasparenza informativa; il che, come detto, induce a pensare che sia venuto meno un tema di rilevante coinvolgimento nell’azionariato del pubblico risparmio.
In secondo luogo, e soprattutto, la nuova nozione di emittente diffuso considera del tutto irrilevanti le modalità di diffusione delle azioni da cui dipende l’apertura al mercato e il coinvolgimento del pubblico nell’azionariato (i c.d. requisiti qualitativi), esaurendosi la previsione nel riferimento ai soli requisiti quantitativi di frammentazione dell’azionariato.
In effetti, all’art. 4, comma 3, d.d.l. Capitali si propone l’introduzione di una nuova disposizione nel codice civile, l’art. 2325-ter, rubricato “Società emittenti strumenti finanziari diffusi”, il quale dispone che «ai fini di cui all’articolo 2325-bis, sono emittenti azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante gli emittenti italiani non quotati in mercati regolamentati italiani i quali contestualmente abbiano azionisti diversi dai soci di controllo in numero superiore a cinquecento che detengano complessivamente una percentuale di capitale sociale almeno pari al 5 per cento e superino due dei tre limiti indicati dall’articolo 2435-bis, primo comma (…)».
Pertanto, nella disposizione proposta, il 5% non costituisce più la soglia di rilevante partecipazione del pubblico, poiché essa si può raggiungere considerando ogni genere di azionista, ivi compresi gli azionisti (diversi dai soci di controllo) comunque interessati alla gestione e magari in possesso di partecipazioni qualificate.
Se si conferma la rinuncia all’obiettivo di individuare un regime intermedio fra società quotate e società c.d. “chiuse”, per evitare le ricordate incongruenze sistematiche, una possibile soluzione sarebbe eliminare del tutto la categoria degli emittenti diffusi, posto che, del resto, è la stessa Relazione al d.d.l. Capitali a dare atto del fatto che essa «costituisce un unicum a livello europeo».
Diversamente, se si vuole mantenere una coerente nozione di emittenti strumenti finanziari diffusi fra il pubblico in misura rilevante, sembra necessario mantenere il 5% come soglia qualificata della diffusione tra il pubblico, al contempo precisando, tuttavia, che il 5% del capitale deve essere distribuito tra almeno 500 “piccoli azionisti” dal cui computo sono esclusi i soci titolari di partecipazioni rilevanti (ossia soci che detengono partecipazioni superiori al 3%).
L’art. 4 del d.d.l. Capitali modifica anche la disciplina delle società con azioni negoziate su MTF, segnatamente estendendo a tali società l’applicazione di previsioni oggi dettate con specifico riguardo alle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.
Sennonché, la mera ammissione alla negoziazione delle azioni in un MTF non implica, di per sé, la diffusione del capitale tra il pubblico in misura rilevante. Tale diffusione dipende dal raggiungimento della soglia del 5% di cui si è parlato. Le piattaforme MTF non sono infatti in generale tenute a stabilire una soglia minima di flottante.
La questione non è di poco rilievo, giacché nel d.d.l. Capitali (art. 4, comma 3, lett. c) la mera negoziazione su MTF viene considerata condizione sufficiente, ad esempio, per applicare l’art. 2357-ter, comma 2, ult. periodo, c.c., norma specifica per le società aperte al mercato, quindi connotate dal fenomeno dell’assenteismo assembleare. Per queste società si ritiene giustificata la regola che considera le azioni proprie come “assenti” in assemblea, per facilitare l’assunzione delle deliberazioni. Siffatta regola non si giustifica, invece, nelle società che non dimostrino una rilevante diffusione dell’azionariato tra il pubblico.
La nuova ipotizzata disposizione finirebbe, dunque, per consentire mutamenti di fatto nella governance di alcune società, nonostante la loro sostanziale natura di società chiuse e proprio questo mancato mutamento renderebbe l’intervento di non agevole comprensione e giustificazione.
La norma estende – per un periodo di due anni – i quorum agevolati per l’assunzione delle deliberazioni di aumento di capitale, che l’art. 44 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (c.d. Decreto Semplificazioni) aveva introdotto, in via transitoria, fino al 30 giugno 2021.
Secondo quanto si legge nella Relazione e nella Relazione tecnica, il citato art. 44 del Decreto Semplificazioni avrebbe dovuto rispondere alla «esigenza di favorire la spedita deliberazione ed esecuzione di operazioni di aumento di capitale», «nell’ambito delle modificazioni del diritto societario volte ad aiutare le imprese italiane ad affrontare la difficile congiuntura economica dovuta alla pandemia da COVID–19». A tal fine, l’art. 44 rimuoveva «un possibile ostacolo alla facilità deliberativa delle assemblee che siano chiamate ad assumere deliberazioni finalizzate, direttamente o indirettamente, a un’operazione di aumento di capitale».
Tuttavia, se nel 2020, in piena pandemia, si facilitavano gli aumenti per necessità, oggi l’art. 8 del d.d.l. Capitali, al dichiarato fine di «supportare le operazioni di ricapitalizzazione delle società di capitali italiane» (v. Relazione al d.d.l. Capitali), facilita aumenti di capitale anche non necessitati, a discrezione di chi – secondo le vigenti regole di legge e di statuto – non è neanche socio di maggioranza, ma lo può diventare proprio per effetto di tale straordinaria disposizione.
Il forzoso abbassamento dei quorum opererebbe, ai sensi dell’art. 8, comma 2, d.d.l. Capitali, anche qualora lo statuto prevedesse maggioranze più elevate, con danno di coloro che hanno deciso di investire nella società in quanto protetti dai più elevati quorum previsti statutariamente.
Se, in principio, appare corretto cercare di agevolare gli aumenti di capitale, quali strumenti “fisiologici” di crescita e rafforzamento patrimoniale, non di meno questa norma appare nel complesso inopportuna: il Paese ha interesse ad attrarre investimenti e a tal fine deve prima di tutto garantire la certezza del diritto, senza rendere inefficaci ex post accordi tra privati, come gli statuti delle società.