Il tono favorevole della congiuntura economica fa ritenere più vicino il momento di una correzione del profilo fortemente espansivo della politica monetaria. Le banche centrali hanno in effetti compiuto qualche passo in questa direzione. La forte crescita dell'indebitamento avvenuta in questo ultimo decennio suggerisce grande cautela nel gestire questa fase di evoluzione.
A metà dicembre 2017 la Federal Reserve ha deciso un nuovo rialzo del tasso di riferimento, il terzo dell’anno e il quinto da quando è iniziata la svolta rialzista (dicembre 2015). Il tasso obiettivo sui Fed funds è quindi ora posizionato nella fascia 1,25-1,50%, con l’aspettativa di ulteriori (forse tre) aumenti nel 2018. Nell’ottobre scorso la Fed ha avviato un programma di riduzione del suo attivo, limitando l’attività di rinnovo dei titoli giunti a scadenza in suo possesso. Si tratta di una novità importante anche se prospetta un riassorbimento molto graduale della liquidità immessa negli anni scorsi: nei primi 18 mesi l’attivo della banca centrale americana è previsto ridursi di circa $500 mld, meno di un settimo dell’incremento registrato dall’agosto 2008.
Seppure in modo più timido rispetto agli Stati Uniti, anche altri paesi stanno muovendosi verso uno stemperamento del tono accomodante della politica monetaria. Nel novembre scorso le autorità monetarie del Regno Unito hanno proceduto ad un rialzo (+0,25%) del tasso di riferimento a distanza di quasi 10 anni dall’ultimo intervento. Nessuna modifica è stata invece annunciata nel programma di acquisto di titoli (£ 444 mld la dimensione raggiunta a fine 2017).
La Bce da parte sua conferma invariati i tassi d’interesse. É stata però annunciata una riduzione degli acquisti di attività (da 60 a 30 miliardi di euro ogni mese) a partire da inizio 2018, fino al successivo settembre (o anche oltre). Alla fine dello scorso anno le attività complessivamente acquistate dalla Bce sfioravano i €2.300 mld. Ritenendo opportuno non attenuare il profilo fortemente espansivo della politica monetaria si continuerà a reinvestire quanto incassato dai titoli scaduti.
Segnali di discontinuità nella politica di forti stimoli monetari vengono anche dal Giappone che dal settembre 2016 interviene per mantenere il tasso a 10 anni su un livello prossimo allo zero. Nelle settimane scorse la BoJ ha ridotto (in misura limitata) i suoi acquisti di titoli governativi. È presto per dire se si tratti di un allentamento temporaneo o dell’avvio di un ripensamento più profondo.
A indurre questa mitigazione del tratto espansivo della politica monetaria sono sicuramente le favorevoli indicazioni espresse dalla congiuntura. Dalle statistiche del Fondo Monetario Internazionale si ricava che oltre 100 paesi possono vantare nel 2017 un miglioramento del consuntivo economico. L’eurozona ha conseguito lo scorso anno la crescita più intensa (+2,5%) dal 2007. Lo stesso Giappone, che da tempo lotta per superare una pluriennale stagnazione, sta assistendo al consolidarsi di un processo di crescita (settima variazione congiunturale positiva). Nell’aggiornare le sue previsioni, il Fmi le ha riviste al rialzo per i paesi avanzati confermando che il miglioramento dello scenario economico è destinato a durare. Per quanto riguarda il rischio deflazione, invece, si registra un suo ridimensionamento ma la dinamica dei prezzi rimane lontana dai valori obbiettivo. Solo nel caso del Regno Unito questo non avviene per effetto del deprezzamento della sterlina (inflazione importata).
L’evoluzione dello scenario macroeconomico è sicuramente un riferimento essenziale quando si considera la possibilità di un superamento delle politiche di forte stimolo monetario adottate in questi ultimi anni, politiche che hanno portato le banche centrali dei paesi del G4 (Fed, Bce, BoE, BoJ) ad accrescere i titoli pubblici detenuti in portafoglio: erano il 10% del loro Pil prima della crisi, ora (metà 2017) sonoal 37% (la BoJ è intorno al 95%). Le banche centrali sono cosi diventate i principali player del mercato dei titoli pubblici (la BoJ detiene poco meno del 50% dei titoli di stato giapponesi mentre l’analoga quota della Bce è stimata intorno al 20%). Questi ultimi dati illustrano in modo chiaro come e quanto sia mutata in questi anni la relazione tra politica fiscale e politica monetaria.
Esiste una larga corrente di pensiero che sostiene che anche il rientro delle politiche monetarie fortemente espansive non si tradurrà (a parte episodi congiunturali) in un forte rialzo della struttura dei rendimenti finanziari perché all’origine dei bassi tassi d’interesse (nominali e reali) ci sono cambiamenti strutturali, economici e demografici, che hanno determinato uno squilibriopersistente tra domanda d’investimenti e offerta di risparmio, instaurando una fase di stagnazione economica secolare. A questa tesi se ne affianca un’altra (possibilmente complementare alla prima) che arriva a conclusioni simili facendo però riferimento a fattori di natura finanziaria (compressione dei premi per il rischio).
Su un aspetto c’è ampio consenso: il ritorno ad un più “normale” ruolo delle politiche monetarie è processo che richiede molta cautela soprattutto nella scelta del timing e delle modalità di attuazione. Le motivazioni che suggeriscono questa cautela sono molteplici, prima tra tutte la straordinaria crescita del debito avvenuta in questi anni. L’IIF (Institute of International Finance) stima che negli ultimi dieci anni (terzo trimestre 2007 – terzo trimestre 2017) il debito globale è cresciuto di oltre $70mila mld, superando i $230mila mld, un importo pari a oltre tre volte l’ammontare del Pil mondiale.
Nel suo ambito, il debito pubblico ha raggiunto i $ 63mila mld, contribuendo in misura sostanziale (+$30mila mld) alla crescita dell’aggregato totale. Altrettanto importante è risultata nel decennio la dinamica del debito delle famiglie (+$10mila mld, a $ 44mila mld) ma soprattutto la crescita dell’indebitamento delle imprese non finanziarie(+$26mila mld, a $ 68mila mld). I rapporti sulla stabilità finanziaria pubblicati negli ultimi mesi del 2017 dalle autorità monetarie dei diversi paesi dedicano ampio spazio a queste due tipologie di operatori, nella considerazione che i rischi ora in essere potrebbero risultare difficilmente gestibili in un mutato scenario finanziario.
Per quanto riguarda le imprese non finanziarie un buon punto di osservazione è costituito dal mercato delle obbligazioni corporate. Rispetto all’inizio del 2011 il mercato dei titoli di debito emessi dalle imprese dell’eurozona risulta aumentato di circa il 50%, arrivando a superare €1.000 mld. Questo dato Bce, già decisamente significativo, sottostima peraltro la dimensione effettiva del fenomeno perché non copre alcune fattispecie e in particolare quella dei titoli emessi da istituzioni finanziarie (estere) a beneficio di imprese dello stesso gruppo, una procedura con vantaggi fiscali e possibilmente anche normativi.
Allo sviluppo di questo mercato ha contribuito non poco la stessa Bce che da metà 2016 ha inserito questi titoli (purché con rating non inferiore a investment grade) tra quelli oggetto dei suoi acquisti.
Il grado di vulnerabilità di questo mercato ad un eventuale rialzo dei rendimenti finanziari è molto diversificato a livello di settori di attività e/o di imprese. Se è vero che circa tre quarti dei titoli hanno un rating investment grade è però altrettanto evidente che la crescita di quelli al di sotto di questa soglia o privi di rating è stata ben più intensa della crescita del mercato complessivo, per impulsi provenienti tanto dal lato dell’offerta quanto da quello della domanda (risk appetite).
Un andamento simile si ritrova nel caso dei prestiti sindacati. Negli Stati Uniti, che rappresentano la componente principale di questo mercato, le emissioni attivate da imprese al di fuori dell’area investment-grade risultano pari al 65% del totale (settembre 2017); nell’eurozona la crescita risulta altrettanto evidente ma per ora più contenuta (al 41%).
Queste indicazioni diventano di rilievo tanto più ci avvicina alla fase di rifinanziamento delle operazioni. Considerando che per oltre il 90% dei casi si tratta di titoli con durata pluriennale è possibile che per il loro rinnovo vengano richieste più onerose condizioni finanziarie, un’eventualità che equivale ad un aumento delle possibilità di default per non poche imprese. Tra le aziende europee considerate dall’indice STOXX Europe 600 il 4% presenta un rapporto tra redditi operativi e interessi passivi inferiore a due. Nel 2016 (ultimo disponibile), tra le 1000 grandi imprese statunitensi considerate nell’indice Us Russell 1000 Index quelle in questa precaria condizione erano ben l’11%, la quota più alta dal 2009. Oltre al livello, l’aspetto qui da evidenziare è che si tratta di una quota in movimento verso l’alto e tale movimento è rilevato all’indomani dell’avvio della svolta della politica monetaria statunitense.
In Cina su un totale di circa $4.000 mld di titoli di debito corporate, $1.700 mld circa sono previsti scadere nel triennio appena iniziato. Il grado di apertura del circuito finanziario cinese è ancora molto ridotto e le autorità cinesi hanno dimostrato un’effettiva capacità di limitare i fenomeni di contagio derivanti da crisi aziendali. Nondimeno la dimensione finanziaria del problema è tale da rendere lo scenario finanziario cinese ricco di incertezza.
L’eventuale attenuazione delle politiche monetarie espansive produrrà per gli istituti bancari un cambio di scenario con ricadute di segno diverso. In particolare, potrebbe invertirsi la forte riduzione del differenziale tra rendimenti attivi e passivi (in Italia sceso dal 2,0% del 2008 all’1,1% del 2016). La contrazione degli interessi percepiti sui finanziamenti a famiglie e imprese ha trovato una compensazione solo parziale nella ricomposizione delle passività verso le componenti meno costose. Nel caso europeo (non in quello statunitense) a questo trend si è aggiunta la penalizzazione delle riserve bancarie in eccesso (-0,40% l’onere imposto sui depositi overnight presso la Bce). La risalita dei rendimenti finanziari offrirebbe sollievo al margine d’interesse che nel caso delle 10 maggiori banche italiane nei primi nove mesi del 2017 ha registrato una nuova contrazione (-3% a/a) dopo quella molto rilevante del 2016 (oltre -7%).
Il mutamento di scenario chiamerà però anche le banche a gestire le ripercussioni del più ampio processo di trasformazione delle scadenze avvenuto nel recente passato: ad una intensa crescita della durata degli impieghi a tasso fisso (più remunerativi) si è contrapposta una raccolta il cui profilo, al contrario, è stato fortemente mutato dall’accresciuto spazio delle passività a più breve termine.
Questa divergenza è largamente diffusa ma non omogenea tra le diverse istituzioni di credito. In Germania gli impieghi con durata oltre i 5 anni sono pari all’87% del totale degli impieghi nel caso delle casse di risparmio e delle banche cooperative mentre si fermano al 47% quando si considerano le banche commerciali; parallelamente, per le prime le passività a vista sono cresciute dal 36% di metà 2007 all’attuale 60%, per le seconde l’incremento è risultato molto più contenuto. Non troppo diversa la situazione negli Stati Uniti dove la FDIC (Federal Deposit Insurance Corporation) ha recentemente evidenziato che $6.100 mld di impieghi bancari hanno condizioni finanziarie bloccate per un periodo superiore a tre anni. Sì tratta di circa il 36% degli attivi bancari, la quota più alta negli ultimi due decenni. Anche negli Stati Uniti la quota è più bassa per gli istituti maggiori mentre è sensibilmente più alta (oltre il 50%) per gli istituti di minore dimensione.
Ad ottobre 2017 la Bce ha condotto uno specifico esercizio di stress su oltre 110 banche da essa direttamente vigilate per valutare (a partire dai dati di bilancio 2016) l’impatto nell’arco di tre anni di un ipotetico aumento di 200 punti base dei tassi d’interesse. Di questo esercizio la Banca Centrale Europea ha diffuso solo i risultati di sintesi che nell’insieme appaiono rassicuranti. Per il 19% delle banche esaminate il risultato sarebbe decisamente positivo (margine d’interesse in aumento e impatto positivo sul patrimonio); un altro quinto di banche si troverebbe nella preoccupante situazione opposta. A determinare l’inserimento in questi due opposti insieme è soprattutto la possibilità di adeguamento del rendimento degli impieghi, elevata nel primo caso, modesta nel secondo. La maggior parte delle banche (57%) registrerebbe un aumento del margine d’interesse e un impatto negativo sul patrimonio. Nell’arco del triennio, invece di una flessione del 7,5% (stimato in assenza di qualsiasi novità) il margine d’interesse aggregato delle banche esaminate registrerebbe un incremento di oltre 10 punti percentuali.