Dopo Jackson Hole
Attenti all'effetto Amazon
Paola Pilati

È calato il sipario sul meeting di Jackson Hole, durante il quale il capo della Fed Powell ha elegantemente glissato sulle provocazioni di Trump riguardo al rialzo dei tassi. Tra quelli dibattuti nella due giorni dei banchieri centrali, l’argomento che forse ha avuto più successo tra quelli affrontati è stato l’”effetto Amazon”. E cioè l’analisi di come il gigante della distribuzione non solo abbia cambiato le abitudini di acquisto, ma condizioni anche il mondo del commercio tradizionale non online negli Stati Uniti e, per quello che riguarda le banche centrali, influisca sul movimento dei prezzi in modo così profondo da pesare anche sull’inflazione, che è una delle variabili su cui si basano le scelte di politica monetaria.

La prima evidenza del paper di Alberto Cavallo della Harvard Business School intitolato “More Amazon Effects: Online Competition and Pricing Behaviors” (https://www.kansascityfed.org/~/media/files/publicat/sympos/2018/papersandhandouts/825180810cavallopaper.pdf?la=en) è la diffusione nell’uso di algoritmi per definire il prezzo dei beni messi in vendita. Amazon ne fa uso, e questo le consente di variare i prezzi con una frequenza doppia rispetto alle catene fisiche della grande distribuzione, ma da qualche tempo anche queste ultime hanno iniziato a fare uso di algoritmi e monitorano i cambiamenti dei prezzi sul web per muovere i propri. Questo crea una interconnessione sempre più stretta nell’industria della distribuzione Usa nel suo complesso.

Secondo risultato della ricerca sull’effetto Amazon è la tendenza delle catene di distribuzione tradizionali a uniformare nei negozi offline prezzi che prima si differenziavano su base geografica. Questo è il risultato della trasparenza che consente Internet, su cui è possibile per i consumatori fare indagini e confronti, ma anche della concorrenza esercitata da Amazon in settori merceologici sempre più ampi. Il gigante del web mostra prezzi uguali nello stesso momento nel 91 per cento dei casi, e solo nel settore alimentare, dove Amazon ha un peso di mercato inferiore, i prezzi sono meno uniformi e si differenziano di più, a dimostrazione che è la sua presenza a fare la differenza.

Infine, la combinazione di questi comportamenti porta a un ulteriore fenomeno: la maggiore sensibilità dell’apparato distributivo nel suo complesso agli shock che si possono manifestare a livello nazionale, per esempio sul prezzo dell’energia, o sulla variazione dei tassi di interesse e del tasso di cambio della moneta. I prezzi al dettaglio, insomma, sono guidati da algoritmi costruiti per incorporare anche questi fattori, e meno quelli che li guidavano in passato, come per esempio il costo del lavoro. Hanno quindi una più stretta correlazione con fattori che appartengono a sfere diverse da quelle proprie della domanda e dell’offerta.

Che questo argomento non sia solo una questione accademica, ma che sia invece un argomento con implicazioni concrete sulla realtà economica, lo ha spiegato nei suoi remarks Yuriy Gorodnichenko, professore a Berkeley, che ha ricordato come negli ultimi anni le banche centrali non siano riuscite a ottenere il livello di inflazione-obiettivo, e che proprio sull’inflazione ostinatamente bassa combinata negli Usa a una disoccupazione altrettanto bassa, la comunità degli economisti si stia interrogando da tempo.

Una riposta potrebbe essere che a frenare l’inflazione sia stato proprio l’effetto Amazon, e che in realtà l’inflazione vera, sotto la crosta dell’effetto Amazon, sia più alta. L’indice dei prezzi al consumo, quindi, andrebbe depurato dell’effetto Amazon come lo si depura dalla variazione del prezzo del petrolio? Di certo in un mondo di prezzi sempre in movimento le banche centrali dovranno rivedere i propri schemi di analisi e di comportamento. Perché l’inflazione diventerà più volatile, più esposta a shock anche transitori, insomma più difficile da controllare.