C’è un paragrafo del Testo Unico Bancario sul quale si consuma da alcuni anni una battaglia politica e (forse) ideologica: si tratta, come noto, del comma 2 dell’articolo 120, in materia di “anatocismo bancario”. Sino a pochi anni fa, la materia aveva vissuto una “salutare” dialettica tra aule di Tribunale e Legislatore, fatta di azioni e reazioni e risposte puntuali ai problemi sorti nella prassi. Alcuni famosi arresti della Corte di Cassazione del 1999 avevano ritenuto illegittimo l’anatocismo nei rapporti bancari; così, il Legislatore provvide a legittimare questo tipo di operazioni attraverso l’introduzione del comma 2 all’articolo 120 e con l’emanazione di una famosa delibera del CICR del 2000. Vi era stata poi una famosa norma “salva banche” sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale e ritenuta, come si ricorderà, viziata per eccesso di delega. A un certo punto, però, si è assistito ad una accelerazione della produzione legislativa che, con moto ondivago, ha prodotto alcune norme differenti nello stile e contraddittorie nel significato.
L’attuale disciplina relativa all’anatocismo bancario è stata introdotta dalla Legge di Stabilità 2014 (!) (Art. 1, comma 629, Legge n. 147/2013) e si è distinta per due principali caratteristiche: a livello contenutistico la (asserita) volontà di cancellare il fenomeno dell’anatocismo; sul piano formale, l’infelice e piuttosto oscura tecnica redazionale, che ne ha resa disagevole l’interpretazione. Le forze politiche di maggioranza hanno poi tentato di modificare la norma – reintroducendo peraltro la possibilità di calcolare interessi anatocistici – tramite lo strumento del decreto-legge (Art. 31, D.L. 24 giugno 2014, n. 91). Il tentativo, però, non ha avuto successo ed il decreto non è stato convertito.
L’obiettivo di una riforma della materia è stato invece raggiunto attraverso una modifica in sede di conversione del c.d. Decreto Banche, approvata in Parlamento anche grazie all’“aiuto” del voto di fiducia (Legge 8 aprile 2016, n. 49 di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 febbraio 2016, n. 18). La formulazione finale dell’atto riporta dunque un nuovo articolo 17-bis che, al comma 2 dell’articolo 120 del Testo Unico Bancario, sostituisce le lettere a) e b) con le seguenti formulazioni:
“a) nei rapporti di conto corrente o di conto di pagamento sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori, comunque non inferiore ad un anno; gli interessi sono conteggiati il 31 dicembre di ciascun anno e, in ogni caso, al termine del rapporto per cui sono dovuti;
b) gli interessi debitori maturati, ivi compresi quelli relativi a finanziamenti a valere su carte di credito, non possono produrre interessi ulteriori, salvo quelli di mora, e sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale; per le aperture di credito regolate in conto corrente e in conto di pagamento, per gli sconfinamenti anche in assenza di affidamento ovvero oltre il limite del fido: 1) gli interessi debitori sono conteggiati al 31 dicembre e divengono esigibili il 1° marzo dell’anno successivo a quello in cui sono maturati; nel caso di chiusura definitiva del rapporto, gli interessi sono immediatamente esigibili; 2) il cliente può autorizzare, anche preventivamente, l’addebito degli interessi sul conto al momento in cui questi divengono esigibili; in questo caso la somma addebitata è considerata sorte capitale; l’autorizzazione è revocabile in ogni momento, purché prima che l’addebito abbia avuto luogo”.
La norma reca indubbiamente una formulazione di più semplice lettura, che recupera in alcuni aspetti gli spunti contenuti nel decreto-legge del 2014 non convertito.
Torna innanzitutto nella norma primaria la periodicità minima annuale del calcolo degli interessi attivi e passivi e, anche per questioni di natura sistematica, vengono introdotti i riferimenti ai conti di pagamento.
La vera novità però è nella modalità di calcolo ed imputazione degli interessi debitori maturati. La norma, infatti, facendo tesoro delle esperienze precedenti:
(a)specifica il criterio generale secondo cui la produzione di interessi su interessi è generalmente vietata (anche) nelle operazioni bancarie;
(b)individua un numero chiuso di operazioni, in linea di massima riconducibili allo schema dell’apertura di credito regolata in conto corrente (sembra quindi che la norma non sia estendibile per analogia ad altre fattispecie);
(c)stabilisce per tali operazioni un periodo trimestrale di inesigibilità degli interessi maturati;
(d)consente al debitore di optare per l’addebito degli interessi sul conto corrente, con contestuale “capitalizzazione”, in luogo del pagamento.
È interessante notare che la nuova formulazione della norma abbandona le incertezze del precedente articolato e supera inoltre qualsiasi dubbio ermeneutico utilizzando la formulazione secondo cui la somma addebitata sul conto corrente “è considerata sorte capitale”.
In effetti, il Legislatore sembra essersi ispirato per la redazione di questa norma ad alcune autorevoli opinioni dottrinali affermatesi già nei primi anni duemila (si pensi ad esempio all’elaborazione di P. Ferro-Luzzi al riguardo), che avevano proposto una interessante ricostruzione del fenomeno della produzione degli interessi nei rapporti di conto corrente.
Senza poter entrare nel dettaglio in questa sede, la tesi muoveva dall’applicazione di talune norme in tema di conto corrente ordinario al rapporto di conto corrente bancario. Con la determinazione dell’interesse passivo annuale sulle somme dovute dal debitore ed il suo addebito sul conto corrente, infatti, si verificherebbe una operazione di c.d. chiusura periodica del conto (cfr. art. 1831 c.c.): gli importi originariamente dovuti a titolo di interesse, divenendo una rimessa relativa al rapporto di conto corrente, muterebbero dunque la loro natura trasformandosi in una somma dovuta a titolo di capitale.
La nuova disposizione di cui all’articolo 120 TUB sembra mutuare la propria struttura da questa impostazione dottrinale. Si è quindi in presenza di una forma di “capitalizzazione” in senso giuridico e non già di anatocismo: nelle operazioni regolate in conto corrente, l’importo originariamente dovuto a titolo di interessi perde la sua natura di frutto civile del capitale, con le relative conseguenze in tema di quadro normativo applicabile. Si pensi, ad esempio, all’imputazione del pagamento effettuato del debitore o ancora al diverso termine di prescrizione del diritto. Ovviamente, inoltre, sulla sorte capitale maturano interessi.
È evidente che la strategia elaborata nella nuova disposizione intende superare alla radice la questione dell’anatocismo poiché, seguendo il filo logico di una norma così congegnata, la produzione di interessi su interessi è, di per sé, espressamente esclusa dalla natura delle rimesse effettuate sul conto corrente. È però fatta salva la redditività dell’investimento per la banca: poiché, infatti, sul “nuovo” capitale è possibile la maturazione di interessi, l’effetto economico della nuova norma è assimilabile all’applicazione di un “interesse composto” al capitale iniziale.
L’analisi completa di questa norma costituisce, ad ogni modo, un argomento evidentemente troppo vasto da approfondire e viene dunque rimesso alla copiosa dottrina che certamente si esprimerà sull’argomento: le pubblicazioni in tema di anatocismo bancario costituiscono ormai un genere a sé nella pure estesa trattazione dei rapporti tra banche e clienti e certamente dovrà attendersi il consueto profluvio di contributi sul tema.
Una considerazione ulteriore però può avere ad oggetto ciò che nella disposizione non c’è, i.e. una disciplina relativa alla consecuzione tra le diverse formulazioni della legge, che invece era stata prevista nello sfortunato intervento legislativo del 2014, attraverso il decreto-legge non convertito.
Come noto, la formulazione corrente della norma rimette alla determinazione del CICR le disposizioni di dettaglio relative “alla produzione di interessi”. Tali norme di attuazione, come noto, non sono state mai emanate e solo di recente era stata avviata una consultazione pubblica, destinata molto probabilmente a non avere esito.
La nuova versione del comma 2 dell’articolo 120 ripropone la devoluzione al CICR delle norme di dettaglio, che dovranno però adeguarsi alle nuove norme di rango primario in vigore. E’ dunque lecito attendersi che la nuova delibera del CICR prenda in considerazione solo il nuovo testo del comma 2 ai fini della formulazione delle norme di attuazione: le disposizioni di dettaglio della norma precedente rischiano, quindi, di non essere mai emanate.
La domanda sorge quindi spontanea: in assenza delle disposizioni di dettaglio, pure richieste dalla legge previgente e mai attuate, si può ritenere che la pregressa formulazione dell’articolo 120 comma 2 (versione 2014) fosse effettivamente dotata di una sua autonoma forza precettiva, per il periodo in cui tale norma è rimasta in vigore?
Al riguardo, occorre ricordare che alcune decisioni giurisprudenziali avevano, in effetti, ritenuto la norma non ancora operativa, in assenza delle relative disposizioni secondarie (cfr. Trib. Bologna, 9 dicembre 2015). Altre pronunce più “progressiste”, invece, avevano considerato efficace “da subito” l’efficacia del divieto di anatocismo, argomentando che le disposizioni di dettaglio, in ogni caso, avrebbero potuto caratterizzare ma non sovvertire il significato della norma (cfr. Trib. Milano 8 agosto 2015). A queste considerazioni dovrà evidentemente aggiungersi il rilevo secondo cui, in assenza della delibera del CICR, questa versione della norma potrebbe non essere mai (anche in futuro) integralmente completa ed intellegibile.
Aderendo all’orientamento di giurisprudenza più restrittivo, si dovrà pervenire alla conclusione per cui una norma, presente nel nostro ordinamento per più di due anni, sia stata valida ma mai efficace. Nel secondo scenario, invece, dovremmo ritenere che, per circa due anni, sia stata in vigore una disposizione monca, oltre che dalla formulazione pacificamente infelice: in assenza delle regole di dettaglio, però, resterebbero aperti interrogativi non di poco conto (tra tutti, ad esempio, l’applicabilità del divieto di anatocismo al debito per interessi derivante dai rapporti di mutuo, eventualità mai espressamente esclusa). In entrambi i casi, data la rilevanza della questione, siamo in presenza di un epic fail per il nostro Legislatore, che nella vicenda sembra aver tenuto un profilo tutt’altro che commendevole.
In definitiva, la nuova formulazione appare più agevole nell’interpretazione ed ingegnosa e chiara nella scelta normativa adottata. Restano ancora questioni da chiarire e dovremo ancora attendere le (nuove) norme di attuazione: sembra comunque di assistere al tentativo di derubricare la vicenda degli ultimi due anni ad una sorta di incidente di percorso.