Il DdL Capitali all'articolo 3 introduce una norma rivoluzionaria: la dematerializzazione delle quote delle Pmi, rendendole quindi uno strumento finanziario negoziabile sul mercato dei capitali. Con dei risvolti di cui il legislatore forse non si è reso conto
L’art. 3 del c.d. “D.d.L. Capitali”, rubricato “dematerializzazione delle quote di PMI”, introduce una norma rivoluzionaria per il nostro attuale sistema societario e, più in generale, per il nostro mercato dei capitali.
Per la prima volta, verrebbe permesso alle S.r.l. che hanno la qualifica di start-up innovative o P.M.I. di immettere nella gestione accentrata in regime di dematerializzazione ai sensi dell’art. 83-bis e ss. TUF, le proprie quote di partecipazione.
Più precisamente accederebbero alla dematerializzazione le c.d. “categorie” di quote di partecipazione, ordinarie e speciali, che, se “aventi eguale valore e conferenti uguali diritti”, potranno esistere “in forma scritturale” e circolare secondo le norme e le forme previste per i titoli dematerializzati.
L’accesso al regime di dematerializzazione “tradizionale”, inoltre, si affiancherà (come alternativa) allo (sfortunato) sistema della dematerializzazione “impropria” prevista per le società che hanno promosso raccolte di crowdfunding ai sensi dell’art. 100-ter TUF.
La norma è mossa dal chiaro proposito di favorire l’apertura al mercato delle PMI e delle start-up innovative. Tuttavia, come si vedrà, le scelte legislative, anche se caratterizzate da lodevolissime intenzioni, non sembrano sempre del tutto razionali.
L’accesso delle quote di S.r.l. alla dematerializzazione “propria” fornirebbe argomenti decisivi a coloro che, negli ultimi anni, hanno sostenuto che le quote di S.r.l. non possano più qualificarsi soltanto come “prodotti finanziari” e che esse, sia pure a talune condizioni, ricadrebbero nella categoria dei “valori mobiliari” e, dunque, nel novero degli “strumenti finanziari”.
L’accesso al sistema della dematerializzazione (e la “standardizzazione” della partecipazione che ciò comporta) renderebbe la quota di S.r.l. (o almeno le quote appartenenti alla categoria dematerializzata) astrattamente “negoziabile nei mercati di capitali” e l’accesso a detto sistema, nel testo della proposta, avverrebbe proprio in deroga ai divieti di emissione di azioni e di offerta al pubblico di cui all’art. 2468, comma 1, c.c.
Ciò con non indifferenti conseguenze in termini di disciplina, tra le quali hanno sicuramente maggiore risalto l’applicabilità della riserva di attività di cui all’art. 18 TUF alle attività di intermediazione sulle predette quote e l’estensione della disciplina sui servizi e le attività di investimento di derivazione europea.
Di fatti, le quote di S.r.l. sono forme di partecipazione al capitale di rischio che, pur non essendo rappresentate da titoli di credito, hanno la medesima funzione delle azioni (esempio, per eccellenza, di “valori mobiliari”), a maggior ragione se queste vengano poi immesse in un sistema di gestione accentrata dematerializzata presso un depositario centrale e siano (di fatto e per conseguenza) assoggettate a un “obbligo di standardizzazione”.
Si noti, poi, che quanto affermato trova non poco conforto nella legge di conversione del D.L. 17 marzo 2023, n. 25 e nel relativo dibattito parlamentare. Come noto, il D.L. 25/2023 ha adeguato l’ordinamento italiano al Regolamento (UE) 858/2022 (il c.d. “DLT pilot regime”), introducendo le prime ed essenziali norme per consentire ai gestori delle sedi di negoziazione e delle infrastrutture di mercato (i.e., CSD e controparti centrali) di convertire le tecnologie utilizzate nei mercati e nelle relative infrastrutture dirigersi verso sistemi e strutture basati sulla Distributed Ledger Technology.
Il Decreto in questione, tra le altre cose, introduce nell’ordinamento nazionale la definizione di “strumento finanziario digitale” e modifica la definizione di strumento finanziario “tradizionale” estendendone l’applicabilità anche alle rappresentazioni digitali di detti strumenti (per es., le azioni emesse in forma di token e immesse in un sistema basato a registri distribuiti).
È utile segnalare che, in tale sede, il Parlamento ha modificato il D.L. 25/2023 inserendo la lett. a-bis) all’art. 28, comma 2. La novella in questione attribuisce alla Consob il potere di estendere, con proprio provvedimento, l’applicabilità del predetto Decreto (e, dunque, della definizione di “strumento finanziario digitale”), inter alia, alle quote di S.r.l.
Ciò comporterebbe, dunque, l’applicabilità della definizione di “strumento finanziario digitale” (ossia degli strumenti finanziari iscritti su un registro per la circolazione digitale e ammessi alle negoziazioni su un MTF DLT ai sensi del D.L. 25/2023), definizione che richiama in modo particolarmente marcato la ben più consolidata e antica definizione di strumento finanziario, per dir così, tradizionale.
Peraltro, mette conto notare che l’estensione dell’applicabilità del D.L. 25/2023 avverrebbe anche in deroga ai divieti di cui all’art. 2678, comma 1, c.c. e ciò produrrebbe comunque la conseguenza che le quote di S.r.l. negoziate su sistemi basati su DLT diverranno comunque negoziabili, trasformandosi, dunque, in valori mobiliari soggetti alla disciplina nazionale di attuazione della MiFID II (ossia alle norme in materia di servizi e attività di investimento) e al Regolamento 2017/1129/UE (c.d. “Regolamento Prospetto”).
In buona sostanza, le ultime novità normative sembrano decisamente tese a promuovere le quote di S.r.l. da “umili” prodotti finanziari (ossia da una tipologia di prodotti soggetti a una scarna e poco organica disciplina nazionale) a veri e propri strumenti finanziari e ciò al fine di favorire l’apertura di questi nuovi emittenti al mercato e, indirettamente, accrescere la dimensione e competitività del mercato di capitali nazionale [cfr. sul punto, R. Lener, Cosa sta succedendo alle quote di srl?, in Quaderni Assosim, I, n.0/2023, p.13].
Sono tuttavia da sottolineare alcune criticità recate dall’art. 3 del D.d.L. Capitali.
Il testo dell’art. 3 del D.d.L. “Capitali”, infatti, introduce le norme in questione nell’ambito del D.L. 179/2012, i cui artt. 25 e ss. regolano le “deroghe al diritto societario” per le start-up innovative e le PMI costitute in forma di società di capitali.
In particolare, l’art. 3 del D.d.L. “Capitali” introduce le norme sull’accesso alla dematerializzazione delle quote di S.r.l. solo nell’art. 26 del D.L. 179/2012 (e non anche le corrispondenti norme codicistiche).
Ciò ha l’effetto – sia pure implicito – di limitare questa innovazione alle quote delle sole S.r.l. che ricadono nelle definizioni di: (i) start-up innovative ex art. 25, comma 2, D.L. 179/2012; o di (ii) piccole e medie imprese.
Ne deriverebbe, perciò, che dal sistema della dematerializzazione saranno paradossalmente escluse le c.d. “grandi S.r.l.” (ossia le S.r.l. che superano i requisiti dimensionali previsti per le start-up innovative e per le PMI).
Ciò non sembra di facile comprensione, né fondato su una qualche plausibile giustificazione. Peraltro, dalle relazioni a corredo del D.d.L. “Capitali” finora depositate al Sentato viene omessa ogni ragione della scelta, quasi come se il legislatore proponente non fosse a conoscenza del problema.
Di fatti, la dematerializzazione comporta per le società emittenti un non indifferente aumento dei “fabbisogni organizzativi” che le piccole entità non sempre riescono a soddisfare.
Perciò, non si comprende come sia possibile ammettere alla dematerializzazione le sole “piccole” (e poco strutturate) S.r.l. ed escludere contemporaneamente le “grandi S.r.l.”, quando proprio queste ultime potrebbero assicurare, ben più delle prime, un pieno rispetto dei requisiti di accesso e un maggiore interesse ad accedervi.
Un difetto redazionale della norma che, se approvata in questa formulazione, potrebbe decretarne l’insuccesso, come già accaduto, per ragioni del tutto analoghe, al regime di dematerializzazione “impropria” (o intermediata) di cui all’art. 100-ter TUF.