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Anche le PMI diventano meno bancocentriche

Il legame tra dinamica economica e domanda di finanziamenti bancari delle imprese sta diventando strutturalmente più debole. Se nel caso delle imprese di maggiore dimensione l’indebolimento dei rapporti con il circuito creditizio è comportamento riscontrato da tempo, ora il fenomeno sta coinvolgendo in misura importante anche le PMI. Oltre all’aumento dell’autofinanziamento e della liquidità prontamente disponibile, determinante per il ridimensionamento del bancocentrismo è la crescita del mercato dei corporate bond.

Silvano Carletti
Carletti

L’economia italiana sta evidenziando segnali di indebolimento (nel terzo trimestre del 2018 +0,0% t/t, +0,8% a/a), un rallentamento che accentua il differenziale di crescita con il resto dell’eurozona. L’orientamento prevalente tra gli analisti è che l’indebolimento in atto possa diventare nel prossimo anno più evidente sia per l’Italia sia per l’intera eurozona.

A fronte di questo appannamento del quadro economico, la condizione complessiva delle imprese italiane appare in costante miglioramento. A questa conclusione conducono numerose analisi presentate negli ultimi mesi. Quelle del Cerved basate sui documenti contabili 2017 segnalano che per il quinto anno consecutivo il fatturato ha registrato un incremento, in misura importante tuttavia indotto dall’accresciuto costo degli input produttivi (materie prime in particolare). I debiti finanziari sono nell’insieme aumentati ma questo effetto è dovuto ad un ristretto numero di imprese medio-grandi. Sia l’ulteriore discesa del rapporto tra debiti finanziari e patrimonio netto sia una incidenza degli oneri finanziari ai minimi dal 2007 hanno favorito un rafforzamento della posizione finanziaria. 

Ne è derivata una tendenziale riduzione del rischio di insolvenza. Nel 2017, per il secondo anno consecutivo il numero delle società che hanno migliorato il proprio rating ha superato quello delle aziende che invece lo hanno peggiorato. Sulla base delle informazioni disponibili, il 53% delle imprese può considerarsi in diversa misura solida, un altro 31% ha un profilo positivo ma potrebbe risultare vulnerabile a mutamenti improvvisi del mercato. Le imprese giudicabili a rischio sono il restante 16-17%, titolari di circa il 13% dei debiti in essere verso il sistema finanziario, una quota inferiore di oltre 4 punti percentuali rispetto all’anno precedente. 

L’analisi del Cerved fornisce due ulteriori indicazioni. La prima è la tendenziale polarizzazione in atto nel sistema, con un aumento delle società inserite nella classe di massima solidità o in quella di forte fragilità. La seconda indicazione riguarda le imprese micro per le quali la frequenza di imprese a rischio (19% a fine 2017) è ben più alta di quanto non riscontrabile per le imprese medie (9,7%) o grandi (5,5%). 

Il tendenziale miglioramento dello scenario suggerito da questo termometro è confermato da altri dati. Nel II trimestre 2018 è proseguito il trend di diminuzione dei fallimenti, processo in atto da quasi tre anni (11 trimestri). Il fenomeno è arrivato a toccare la generalità dei settori (comparto delle costruzioni compreso) mentre si presenta differenziato a livello territoriale con importanti regioni dell’Italia Centrale e Meridionale che si muovono in direzione sfavorevole. 

Il miglioramento della condizione delle imprese è legato in qualche misura alla maggiore efficienza del circuito dei pagamenti e in particolare alla graduale regolarizzazione dei pagamenti delle amministrazioni pubbliche. Grazie anche all’introduzione della fatturazione elettronica (obbligatoria dal 31 marzo 2015) l’ammontare dei debiti della PA, pari a poco meno del 6% del Pil nel 2012, sarebbe sceso al 3,3% alla fine dello scorso anno (stima della Banca d’Italia), con circa metà di questa quota definita fisiologica (cioè coerente con i tempi di pagamento stabiliti contrattualmente dalle parti).

Anche sotto il profilo reddituale il quadro appare favorevole. Secondo la consolidata indagine della Banca d’Italia, la quota di imprese che dichiara di aver chiuso in utile il 2017 è risultata pari a quasi il 75%, un valore storicamente elevato e oltre 6 p.p. superiore a quello di due anni prima. La percentuale supera il 77% nel caso delle imprese del settore manifatturiero, non arriva al 73% per quelle dei servizi, scende al di sotto del 70% nel comparto delle costruzioni (due anni fa era al di sotto del 60%).  

Il diffuso recupero di redditività ha incoraggiato gli investimenti. In misura più intensa dell’anno precedente, un’ampia quota (oltre il 50%) delle imprese che hanno effettuato investimenti ha beneficiato di almeno una delle misure di incentivo in vigore (nuova Sabatini, credito d’imposta, super-ammortamento, iper-ammortamento). Tra queste misure quella più utilizzata è stata il super-ammortamento, finalizzato a sostenere gli acquisti di nuovi beni strumentali. 

Si stima che almeno un decimo della spesa aggregata per investimenti sia stato destinato all’adozione di tecnologie avanzate, spinte dalle agevolazioni per gli investimenti previsti dal piano nazionale “Impresa 4.0”. L’obiettivo del piano è quello di rendere più intenso il processo di adozione delle nuove tecnologie digitali, processo che vede l’Italia in sensibile ritardo rispetto alla media dell’eurozona. 

Le dinamiche congiunturali non hanno intaccato le debolezze strutturali del sistema imprenditoriale italiano nel quale ad una presenza di PMI relativamente superiore agli altri principali paesi europei si affianca un sottodimensionamento delle imprese maggiori. Su quest’ultimo aspetto fornisce utili indicazioni una ricerca di Mediobanca che prende in considerazione i primi dieci gruppi manifatturieri quotati in Italia, Francia, Germania e Regno Unito. Il gap dimensionale è evidenziato da tutti gli indicatori proposti: dalla capitalizzazione di Borsa al fatturato (per i top player italiani, in media, pari rispettivamente a poco più di un decimo e un quarto di quello delle maggiori imprese tedesche e francesi). 

Un aspetto evidenziato dalla ricerca è che queste differenze si sono considerevolmente approfondite nel più recente quinquennio. Tra il 2013 e il 2017 la crescita del fatturato dei 10 maggiori gruppi manifatturieri quotati italiani (+10,7%) è poco più della metà di quella rilevabile in Germania o Francia (sopra il 19% in entrambi i casi). La dinamica occupazionale propone differenze anche più ampie. Conclusione non diversa se si guarda agli investimenti: quelli realizzati dai top player dell’industria manifatturiera italiana sono una frazione di quelli completati negli altri paesi europei. Tuttavia, se si rapporta la spesa per investimenti alla dimensione del fatturato il dato italiano (4% nella media del quinquennio) si confronta bene con quello di Francia (3,9%) e Regno Unito (3,3%) pur rimanendo lontano dal dato tedesco.

Da qualche tempo si è dovuto constatare che il miglioramento della condizione delle imprese italiane e l’intensificazione della loro attività si riflette in misura molto timida sulla domanda di credito. In effetti, negli ultimi mesi la dinamica dei prestiti alle imprese (al netto delle cartolarizzazioni) è tornata stabilmente positiva ma per valori ancora relativamente modesti (+2,5% a/a a settembre) e sensibilmente lontani da quelli prevalenti negli altri principali paesi dell’eurozona. La crescita annua dell’aggregato nei primi nove mesi del 2018 è risultata pari a +1,8% in Italia, +5,4% in Germania, +6,1% in Francia, +9% in Belgio, +3,7% nell’insieme dell’area euro; valori più modesti si rilevano solo in Spagna (-0,2%) e nei Paesi Bassi (+0,4%). 

Peraltro, l’accelerazione rilevata nell’anno in corso (nel secondo semestre 2017 l’incremento era stato praticamente nullo) è in misura non trascurabile probabilmente dovuta alle condizioni che regolano le operazioni di rifinanziamento a più lungo termine TLTRO 2 promosse dalla Bce nel 2016.

La debole crescita dei prestiti alle imprese italiane sembra in questa fase un problema prevalentemente di domanda piuttosto che di offerta. Per effetto del perdurante tono accomodante della politica monetaria europea, infatti, le banche sono generalmente disponibili a valutare positivamente le richieste di credito (allentamento dei criteri di offerta) e i finanziamenti sono erogati ad un tasso d’interesse particolarmente contenuto. 

Le informazioni a disposizione sembrano supportare la tesi che il legame tra attività economica e domanda di finanziamenti bancari delle imprese sia diventato strutturalmente più debole. In effetti, i prestiti alle società non finanziarie sono tornati a crescere solo all’inizio di quest’anno, nonostante la ripresa dell’economia sia in atto da circa cinque anni. In termini reali, il loro ammontare è ancora inferiore dell’8% rispetto al livello osservato al termine della recessione (primo trimestre del 2013) mentre il prodotto interno lordo è cresciuto nello stesso periodo del 5%. Al divario tra l’andamento dell’attività produttiva e quello del credito hanno contribuito tutte le classi dimensionali di impresa ma in particolare quella delle imprese minori. 

I fattori che stanno modificando il rapporto tra imprese e circuito bancario sono individuabili da un lato nei mutamenti della gestione aziendale che hanno prodotto un ridimensionamento dell’indebitamento esterno, dall’altro lato nella crescita della capacità di offerta dei canali finanziari non bancari.

Il conseguimento di un più prudente equilibrio tra indebitamento e dotazione patrimoniale è processo in atto da tempo, in Italia e altrove in Europa. Alla fine dello scorso anno la leva finanziaria delle imprese italiane era in media pari a circa il 40%. Il dato italiano è ancora più alto di quanto riscontrabile per gli altri principali paesi europei ma la correzione intervenuta nel nostro Paese (-10 punti percentuali rispetto al 2011) è seconda solo a quella della Spagna (-12,3 p.p.). Inoltre, diversamente da Francia, Germania e Regno Unito, in Italia (e in Spagna) alla riduzione della leva ha contributo in misura significativa la diminuzione dell’indebitamento, aggregato che in Italia più che altrove è costituito proprio da finanziamenti bancari.  

Nel caso delle imprese di maggiore dimensione l’indebolimento dei rapporti con il circuito creditizio è fenomeno avviato da tempo. Molto più articolato e ancora sicuramente in evoluzione lo stesso fenomeno considerato sul fronte delle PMI. Un’analisi del Cerved pubblicata alla fine dello scorso anno e basata sui bilanci di quasi 150mila PMI ha messo in evidenza che il 39% circa di queste imprese non ricorre al canale bancario, in gran parte perché è in grado di autofinanziare completamente le sue attività, in parte minore (un quarto circa di queste imprese) perché fa riferimento a fonti di finanziamento non bancarie. Rispetto al 2009 l’insieme delle PMI che elude il canale bancario risulta aumentato di circa 10 punti percentuali. 

Negli anni della crisi economico-finanziaria si è anche intensificato il fenomeno del cash pooling, e cioè la messa “in comune” delle disponibilità finanziarie delle diverse componenti di un gruppo aziendale. L’operare di questo meccanismo di riallocazione ha certamente indebolito il ricorso a fonti finanziarie esterne. Pur in assenza di  documentazione, è ragionevole ritenere che il graduale superamento della crisi economica non abbia comportato la rinuncia a gestire le problematiche finanziarie a livello di gruppo piuttosto che a livello semplicemente aziendale.

Nell’insieme, le imprese hanno accresciuto sensibilmente la quota di autofinanziamento degli investimenti, dal minimo del 46% nel 2008 all’89% dello scorso anno (stima Banca d’Italia).  

E’ complessivamente improbabile che questo scenario muti in misura importante nei prossimi mesi. A questa conclusione spingono molte circostanze tra le quali l’ampia disponibilità di liquidità delle imprese: alla fine di settembre le società non finanziarie residenti in Italia risultavano titolari di €299 mld di depositi, €28 mld in più rispetto ad un anno prima. L’evoluzione in atto in Italia è  simile a quanto parallelamente avviene nell’area della moneta unica: rispetto ad inizio 2016,  + 17% per l’intera eurozona con Francia (+20%), Spagna (+25%) e Italia (+32%) ben al di sopra del dato medio. 

Oltre all’aumento dell’autofinanziamento e della liquidità prontamente disponibile, altro fattore determinante per spiegare l’indebolito legame tra intensificazione dell’attività e dinamica dei finanziamenti bancari è individuabile nella sostenuta crescita del mercato dei corporate bond, una realtà a livello di eurozona non lontana da €1.400 mld. Nella fase più recente la Bce ha fortemente stimolato la crescita di questo mercato (+18% da inizio 2016 per l’intera eurozona), da un lato deprimendo i rendimenti dei titoli di stato, dall’altro lato procedendo (da giugno 2016) a significativi acquisti di questi titoli (a fine ottobre 2018  la consistenza del suo portafoglio di corporate bonds ha raggiunto i €173 mld). 

La crescita del mercato dei titoli di debito societari ha sottratto spazio ai prestiti bancari. Nei primi otto mesi di quest’anno, la quota dei corporate bonds sul totale dei finanziamenti esterni delle imprese (corporate bonds + prestiti bancari con scadenza oltre un anno) è risultata in Italia pari al 20% a fronte del 16,5% della Germania, del 38% dei Paesi Bassi, del 42,5% della Francia; la media per l’eurozona è pari al 28,3% ma scende al 22% se si esclude la Francia le cui imprese risultano emittenti di oltre metà dei titoli in circolazione nell’eurozona. 

Rispetto alla realtà precedente lo scoppio della grande crisi internazionale il salto è quasi ovunque significativo: crescite di 9,3-9,4 punti percentuali per Belgio e Italia; 7,7-8 per Spagna e Francia. Nelle code di questa distribuzione si ritrovano da un lato la Germania (meno di 2 p.p.), dall’altro i Paesi Bassi (quasi 30 p.p.). 

Negli ultimi due anni la crescita del ruolo dei corporate bonds ha subito un rallentamento (solo +1 p.p. per l’insieme dell’eurozona), con circa metà dei paesi dell’area che registrano un arretramento più o meno importante. Tra i paesi in cui questo non avviene c’è l’Italia. La ripresa economica ha spinto al rialzo entrambi gli aggregati coinvolti nell’indicatore. Ma in pochi altri paesi è così ampio il differenziale tra il ritmo di crescita dei corporate bonds (decisamente vivace) e la progressione (piuttosto debole) dei finanziamenti bancari con durata superiore a un anno.