Se si considerasse l’operazione in sé, senza ulteriori sviluppi, il risultato finale, con una redditività inadeguata, non sarebbe vantaggioso. Ma offre maggiore forza contrattuale verso i nuovi player e nei nuovi segmenti. E indubbiamente la mappa del potere bancario risulterà modificata
Dedico qualche considerazione sull’ipotesi, fortemente presente ma non ancora definita, di un’OPS di Banca Intesa su UBI. L’obiettivo è quello di una incorporazione, il piano alternativo (complessivamente di ripiego) quello del controllo. La partita si gioca tra un’adesione minima dei soci UBI del 51% o del 66%, i due coefficienti che determinano gli esiti di assemblee ordinarie o straordinarie, se dedicate a mutamenti statutari.
Premetto che mi esprimo nella posizione di studioso/studente del mondo bancario da 45 anni; non sono cliente di nessuna delle entità coinvolte, non ho mai ricoperto ruoli rilevanti in quegli ambiti, ho frequentato come formatore molte delle realtà, con coinvolgimento solo professionale. Conosco i business model dell’area del risparmio gestito in entrambi i fronti e, in famiglia, ho esperienze di mutui e di conti correnti in entrambi. Una condizione che mi consente di non rappresentare interessi se non quelli del sistema complessivo dell’intermediazione finanziaria con valutazioni solo personali.
In caso di realizzazione dell’ipotesi, si creerebbe una banca di rilevanti dimensioni nazionali, ma senza una compiuta diffusione paneuropea. Fortemente italocentrica, ma rilevante per AUM, per capacità di erogazione del credito e per posizionamento nell’ambito della gestione del risparmio in una delle aree più interessanti sotto questo profilo (l’Italia). Una banca comunque fortemente dedicata al retail, con interessanti ma non dominanti quote nel wealth management sotto il profilo della intermediazione, non della gestione diretta.
Un buon punto di partenza, se accompagnato da una strategia idonea, adeguatamente definita – quale ipotesi iniziale – nell’offerta presentata al mercato e ai diversi interlocutori istituzionali che debbono esprimersi in merito con le loro autorizzazioni. Un disegno che coinvolge la BCE, la Banca d’Italia, la Consob e l’IVASS oltre – ovviamente – all’AGCOM. Separo l’esposizione perché le prime appaiono esprimere pareri favorevoli all’ipotesi, mentre l’ultima propone alcune richieste di natura geografica e localistica per le quali esiste un’ipotesi precisa di coinvolgimento di una banca (BPER) nella gestione del processo.
Si rendono necessari aumenti di capitale significativi, ma compatibili per le singole banche e per il mercato. Vi sono aree di debolezza in alcune componenti dei gruppi coinvolti, ben note da tempo, ma sono in discussione società bancarie e di intermediazione complessivamente sane, adeguatamente capitalizzate e con problemi sotto la media del sistema bancario. Nessun salvataggio specifico; quelli passati sono stati assorbiti nelle scelte che hanno caratterizzato precedenti episodi di fusioni e incorporazione dell’ultimo ventennio (il Banco di Napoli, le Popolari venete e le Casse di Risparmio meridionali – CARIME, Banca Etruria, Banca Marche e Cassa Chieti).
Un’operazione quindi con obiettivi di crescita, compatibilmente con la situazione intervenuta dopo la manifestazione di interesse tradottasi nell’OPS nel mese di febbraio. Resta la valutazione che questa operazione, come altre nella UE, mantiene un profilo nazionale, mancando al momento ipotesi di alleanze internazionali che, teoricamente, rappresenterebbero scelte più coerenti con il processo di Unione Bancaria, sempre ferma al terzo stadio (quello dello European Deposit Insurance Scheme – EDIS), dopo la implementazione dei primi due (il Single Supervisory Mechanism – SSM e il Single Resolution Mechanism – SRM).
La premessa esclude l’approfondimento di situazioni soggettive e contempla qualche generalizzazione. Le ottiche attraverso le quali approfondire l’analisi sono sette, prevalentemente in ambito UBI, ma anche in chiave Banca Intesa:
Oltre trenta fondazioni bancarie sono coinvolte in entrambe le parti*; solo alcune con quote al momento interessanti per la capacità di gestire la governance attuale con l’alternativa di aderire all’OPS restando o cedendo, a seconda della possibilità di mantenere capacità d’influenza, oppure con obiettivi di redditività nel tempo. Dopo una iniziale ritrosia ed opposizione, il fronte complessivo si presenta meno coeso; la soluzione più plausibile poiché gli interessi non sono omogenei e l’operazione può aver corso anche senza il consenso di alcune delle entità maggiori.
Una percentuale rilevante dell’azionariato è rappresentata inoltre da asset manager gerenti numerosi fondi di investimento le cui quote sono in continuo movimento e riguardano spesso entrambe le banche; le loro scelte saranno condizionate dai prezzi dell’offerta di scambio ed appare plausibile un’adesione cospicua per realizzare (quando del caso) plusvalenze o recuperare liquidità per altre operazioni. È utile tenere presente che la maggior parte di esse fa capo a governance non italiane e a gruppi bancari concorrenti nel contesto comunitario.
I soci non italiani con quote “significative” sono a loro volta banche, intermediari di investimento e fondi sovrani. Questi ultimi, con pesi inferiori a quelli presenti in altre banche, hanno bisogno di realizzare liquidità dopo la crisi, venendo meno nuovi flussi loro caratteristici che ne garantivano la continuità dell’offerta per nuovi investimenti; venditori probabili quindi, salvo eccezioni. Un caso a parte possono risultare i fondi pensione con la loro logica di lungo periodo, coerente con il profilo strategico delineato dalla proposta (qualora condiviso).
Per quanto concerne i soci individuali provenienti dalle ex-banche popolari, numerosi ma decrescenti, si tratta di scegliere fra l’opportunità d’uscita con prezzo vantaggioso rispetto alle quotazioni correnti e la complessa alternativa di far valere la loro componente associativa, che potrebbe tuttavia giocare un ruolo decisivo nel successo del OPS tra il 51% e il 66%.
Per quanto concerne i dipendenti (raramente soci se non quelli residui dalle banche popolari incorporate nel tempo e rimasti ancora impegnati), il perimetro dei loro interessi si collega con le inevitabili situazioni di abbondanza e sovrapposizione di risorse umane. Con le numerose operazioni di scivolamento e di esodo già realizzate, la risoluzione dei rapporti potrebbe risultare costosa per la nuova entità bancaria, essendo diminuita l’età media interna (alta in sé, ma lontana da quella della quiescenza) e innalzata quella della pensione di vecchiaia pubblica.
L’analisi si complica scindendo coloro che resteranno nel gruppo e coloro che transiteranno in altra banca con la cessione degli sportelli (530 al momento o il numero effettivo ad operazione definita). Qualche frizione è immaginabile fra le posizioni individuali e quelle delle organizzazioni sindacali: una distonia ormai diffusa nel settore bancario da qualche anno. Altrettanto plausibile è l’uscita di diversi soggetti apicali cui fossero attenuati poteri e deleghe dopo la fusione.
Per quanto concerne la clientela, questa è ormai abituata da quasi un trentennio a subire i cambiamenti di proprietà e titolarità delle proprie banche originarie. Dobbiamo considerare che le oltre sessanta banche originarie avevano spesso caratteristiche fortemente localistiche; entrambe le entità pur definitesi “Intesa” o “Unione” hanno spesso e per lungo tempo mantenuto i brand locali, mutando più volte strategie in tal senso.
Al momento i marchi sono unificati, ma i tessuti locali rimangono (tranne nelle aree metropolitane) ancorati alle realtà originarie, risultando peraltro ormai attenuate le tensioni iniziali di vicinanza, soprattutto rilevanti in Banca Intesa nel Nord-Est e nel Centro Italia. Appartengono ormai a scenari superati le preoccupazioni legate alle prime fusioni (l’area milanese per Intesa e quella bergamasca e bresciana per UBI, tra l’altro spesso anche socia).
Guardando agli episodi passati, si può rilevare che, in questa occasione, mancherebbero per la clientela, molte delle opzioni possibili in passato quando banche locali (le BCC, alcune popolari e talune banche oggi – curiosamente – protagoniste all’interno dei due gruppi) seppero approfittare del disagio della clientela, soprattutto quella corporate, indubbiamente, colpita dalla compressione degli affidamenti, quando clienti di entrambe le componenti.
La clientela prevalentemente depositante è in generale meno sensibile, risultando più toccata nel caso di cessione dello sportello a terze entità; una condizione che potrebbe contenere un vantaggio per la nuova entità in termini di funding policies. La clientela “borrower” dovrà essere esaminata nei suoi comportamenti alla luce delle conseguenze della attuale crisi e delle norme che regolano i debiti che verranno accesi. Uno scenario parzialmente diverso da quello tradizionale.
2. IL CONTESTO AMBIENTALE
Il terreno del contesto economico sociale è meno agevole da esaminare con obiettività. Certamente, i competitors temono l’operazione (nell’ipotesi di un risultato di successo) a causa dell’elevato potenziale che ne risulterebbe in termini di power play e di interessi di marketing della nuova condizione. Potremmo distinguere le reazioni del gruppo concorrente maggiore (Unicredit), della banca che vedrebbe ridotta la propria posizione competitiva (Banco BPM), per la quale si era anche ipotizzata una complessa fusione con UBI, e della banca alla ricerca di una soluzione di posizionamento propria (MPS), tra l’altro con un’azionista necessariamente destinato ad uscire dalla compagine (la quota pubblica maggioritaria). BPER, per contro, vedrebbe crescere la propria dimensione e gestirebbe quindi una problematica del tutto differente (acquisire sportelli quando la tendenza è a diminuirli, ancorché pagandoli ad un prezzo di gran lunga inferiore ai valori del passato). Tralasciamo al momento le tre banche comunitarie (BNL-BNP, Credit Agricole e Deutsche Bank) e le entità medie, così come i due GBC del credito cooperativo, uno dei quali potenziale acquirente di Carige (l’altra banca con esigenze di soluzione della propria governance).
Rispetto ad altre realtà nazionali comunitarie, resterebbe comunque un sistema bancario più frazionato degli altri, ferma restando la strutturale assenza di banche di medio termine e di investimento, il cui campo rimarrebbe ancora coperto dalle entità interne alle singole realtà, condizione peculiare italiana e fonte di debolezza nel terreno del finanziamento delle operazioni strutturali e di investimento strategico. Una zoppia del sistema bancario confermata dal mutamento strategico della posizione di Mediobanca e dalla incorporazione dei Mediocrediti Regionali nelle banche citate in precedenza. IMI conferma questo contesto quale realtà interna ed ora incorporata in Intesa.
La nuova realtà avrebbe avere un azionariato molto frazionato, ma sarebbe potenzialmente contendibile anche se solo da soggetti particolarmente forti. Non si è in grado al momento di valutare il destino, il mantenimento o lo sviluppo di patti di sindacato attuali o costituendi. Ricordo, solo per memoria, il sottile ma costante legame che ha caratterizzato per molti anni un importante fattore di governance fra Banca Ambrosiano e Banca San Paolo di Brescia, episodio oggi sottoponibile alle regole dell’interlocking (la presenza di Giovanni Bazoli).
La partita settoriale (risparmio gestito e operazioni non bancarie, leasing e factoring), le neo-banche, i gestori di sistemi di pagamento e gli operatori prevalentemente on line costituiscono il rischio sistemico (positivo o negativo) potenziale più elevato perché potrebbe influenzare le future quote di mercato, soprattutto attraverso la modifica della composizione demografica della clientela, con la sostituzione dei cluster più anziani con le nuove generazioni. Tessere nuove alleanze sarà la mossa del prossimo decennio, il cui scenario non appare prevedibile, ma da molti suggerito.
La semplice aggregazione INTESA-UBI non costituisce quindi un punto di arrivo quanto di partenza per futuri cambiamenti. Se si considerasse l’operazione in sé, senza ulteriori sviluppi, probabilmente il risultato finale non sarebbe vantaggioso, determinando volumi rilevanti con redditività inadeguata. Potrebbe risultare in parte un’operazione fuori dal tempo, ma dobbiamo prevedere anche l’ipotesi di una maggior forza contrattuale verso i nuovi player e nei nuovi segmenti. Indubbiamente la mappa del potere bancario risulterà modificata, ma la questione “politica” è volutamente accantonata in queste note.
Resta però l’empasse legato alla quota di adesione all’OPS; tra il 51% e il 66% si creerebbero problemi operativi e gestionali. Il vero obiettivo logico è il pervenire all’integrazione piena delle due banche. La prima fattispecie potrebbe lasciare più spazi alla concorrenza. L’area Intesa SanPaolo sarebbe più debole con dispersione dei propri sforzi, ma – soprattutto – ne risentirebbe UBI al cui interno vi sarebbero azionisti con posizioni divergenti, una condizione fortemente negativa e destabilizzante.
Ultima considerazione, espressa in un articolo del 2007: le fusioni – come i matrimoni – si valutano dopo la definizione del contratto e alla luce dell’esito della convivenza capace di svelare impatti non previsti. La situazione nel caso delle banche è complicata dal fatto che i soggetti in grado di determinare l’esito non sono due, ma molti di più. Per contro, lo stato dell’arte reclama – superate le autorizzazioni e le adesioni – la messa in opera dell’operazione per evitare effetti reputazionali. Ciò non assicura peraltro il successo.