In Filigrana

di Giuseppe G. Santorsola

Anatomia del caso MPS

La situazione è pericolosamente fluida, il che non è fattore positivo, ritardando ogni decisione. Ma non vanno trascurate opportunità nei settori non tradizionali, in un’ottica di corporate e investment banking, terreno più scoperto nella realtà dell’intermediazione finanziaria italiana

Giuseppe Guglielmo Santorsola
santorsola

Propongo qualche considerazione sul Monte dei Paschi di Siena, un tema importante e difficile da trattare senza assunzioni condizionate da posizioni di parte. Stendere alcune note non è agevole in una fase molto fluida e priva di una soluzione già intellegibile.

Partiamo dall’assunto che il soggetto centrale è una banca di grande tradizione, di notevoli dimensioni, con problemi ormai evidenti. Per contro, a fronte di un valore di libro ponderato per i rischi fortemente compromesso da eventi del passato, dall’incertezza in prospettiva e dalla mancanza di adeguate offerte d’acquisto che incontrino interesse tra le parti, resta evidente un embedded value che non deve essere compromesso dallo scorrere del tempo e dalla mancanza di piani industriali di intervento che prevalgano sui comprensibili interessi di parte. Molti di questi pesano in modo condizionante sul disegno strategico e sulla struttura organizzativa che potrebbero dare vita alla soluzione. Si tratti di una cessione intera, di uno spezzatino più o meno virtuoso ed omogeneo, di una riduzione (leaning) industriale o di una rigenerazione con ristrutturazione e cambio di posizione.

È inutile ripercorrere il passato nei suoi errori (la trattazione invero più frequente), nei suoi reati, già emersi e non ancora giudicati, e nella mancata accettazione delle soluzioni succedutesi dal 2013, una data che segna l’emersione delle difficoltà e l’inizio di gestioni che si sono sovrapposte, disperdendo di fatto risorse dei numerosi soci che si sono succeduti nel tempo, perdendo sistematicamente i capitali investiti.

È evidente il timore, per chiunque intervenisse, di non riuscire a risolvere il problema, compromettendo altre risorse finanziarie nonché la reputazione di chi si coinvolgesse con responsabilità di amministrazione e di controllo.

Proviamo a delineare alcuni aspetti:
a) la banca è attualmente in mano pubblica, caso unico nel settore, salvo il ben diverso Banco Posta;
b) le conseguenze del passato condizionano ogni soluzione con debiti in scadenza, crediti dubbi della più varia natura e rischi legali difficilmente affrontabili; una serie di embedded losses che impattano sull’embedded value prima citato;
c) ogni intervento finanziario dovrebbe risolvere le condizioni del passato, distraendo risorse dalla necessaria attenzione verso il futuro; otto anni senza soluzioni strategiche hanno fatto arretrare la quota di mercato della banca in molte aree strategiche, ferma restando l’ampia presenza in location, ma non in altri settori, che vengono costantemente ritenuti poco interessanti dai potenziali compratori;
d) negli ultimi esercizi in cui la banca è stata in grado di costruire margini di intermediazione positivi, gli accantonamenti imposti dal forte peso dei crediti deteriorati hanno determinato perdite di esercizio, rendendo necessarie ricapitalizzazioni che hanno allontanato l’interesse dei soci; non essendo terminata questa esigenza, essa influisce sulla disponibilità di nuovi soci con carattere d’impresa;
e) una buona quota dei crediti deteriorati non proviene dalle operazioni di finanziamento realizzate e valutate nelle filiali, ma origina da operazioni “direzionali” spesso non accompagnate dalle garanzie reclamate dalla regolamentazione comunitaria (CRD IV-CRR);
f) alcuni stakeholder privilegiano soluzioni di merger, mentre Authorities e consulenti indipendenti preferiscono situazioni di acquisition; ciò genera uno stallo nella formazione di una decisione;
g) lo shareholder principale (il MEF) mantiene una posizione di fatto silente ed è condizionato anche dalle regole comunitarie in merito alla scadenza dei termini che impongono la chiusura della posizione, stante la difficoltà di negoziare con efficacia un prolungamento dei termini;
h) l’ipotesi stand alone riscontra interesse per alcune parti sociali, ma è tecnicamente non fattibile per mancanza di sottoscrittori del necessario capitale; inoltre determinerebbe un dimagrimento della struttura che verrebbe contrastata da altre parti sociali;
i) non espongo l’ipotesi di un intervento “non italiano”, ipotesi che viene rifiutata in modo quasi unanime, unico elemento di coesione fra le parti.

Inoltre, è indispensabile considerare il costo complessivo del sostegno; partendo da quelli relativi alla ripartenza, valutiamo:

  • l’aumento di capitale da 3 fino a 4,5mld€;
  • la gestione degli esuberi intorno a 1,5mld per 3200 dipendenti;
  • la cessione degli NPL a prezzi di mercato e non scontati per circa 2mld€ oppure cessione ad AMCO per circa 6,0mld€;
  • le opportune coperture per le cause legali ritenute non eliminabili per circa 3-4mld€;
  • gli altri costi di funzionamento e di “manutenzione”, per un totale di circa 16mld€ (riducibili fino a 9,5mld€ abbassando l’aumento di capitale e la cessione degli NPL): somme imponenti non facilmente apportabili né dal comparto pubblico né da quello privato.

Questo insieme di fattori avrebbe impatto anche sulla gestione corrente futura, riducendo le risorse disponibili per gli investimenti tecnologici ed operativi necessari per difendere la posizione di mercato, aggredita sia all’interno del settore tradizionale sia dai nuovi competitori nella raccolta, negli impieghi e nel sistema dei pagamenti.

La situazione è pericolosamente fluida, il che non è fattore positivo, ritardando ogni decisione. Un copione che replica pericolosamente l’esperienza di Alitalia, la cui crisi è peraltro durata ancora di più.

L’interruzione del negoziato con Unicredit potrebbe (anche e forse) non essere una chiusura definitiva, ma ribadisce tatticamente un’eventuale ripresa su basi molto distanti e con l’intervento ripetuto di componenti pubbliche per l’acquisizione di NPL, aree di business indesiderate e riduzione dei costi di struttura. La prova di forza è alimentata dall’assenza di alternative idonee, talvolta volute ed esposte, ma prive di idonea valenza e dotazione di risorse. Un matrimonio con sposo/sposa non amato/a né ricco/a; essendo un matrimonio, il contratto non prevede un prezzo per la sua conclusione, come in precedenti esperienze del 2015 e del 2017.

Dall’interno della banca si deve sottolineare un’apprezzabile motivazione di molti nel continuare la propria collaborazione. Nell’ambito del gruppo bancario alcune entità proseguono l’attività con risultati comunque positivi che lasciano intuire opportunità nei settori non tradizionali, una soluzione alternativa da considerare in un’ottica di corporate e investment banking, terreno più scoperto nella realtà dell’intermediazione finanziaria italiana.

Immagino, in particolare, soluzioni che contemplino cooperazione fra i segmenti corporate e wealth, iniziative nel settore del private equity e private debt, aree più aperte a nuovi operatori se dotati di strategie solide e stabili. Una soluzione rischiosa nell’esito, ma idonea per valorizzare un segmento capace di creare valore più rapidamente attraverso un ruolo di investitore paziente. Resta da risolvere il problema di base della dotazione di adeguate forme di raccolta.

Tornando, in conclusione, a considerare fattori non tecnici, essi non rientrano nelle mie competenze, ma non possono essere tralasciati in una visione “moderna” dell’impresa in quanto riferiscono a stakeholders importanti e condizionano la definizione di una buona governance.

È augurabile che un approccio similmente comprensivo sia tenuto presente anche da parte loro. Se mi è consentita una chiusura non istituzionale, è certo che non avremo più una banca dei Paschi, erede delle sue origini. Confidiamo nella scelta di una transumanza, dal Monte alla Pianura, efficace guidata da pastori esperti e non condizionati. Una tratta estiva da percorrere rapidamente nella stagione invernale!