Il debito elevato riflette gli ingenti disavanzi del settore pubblico, la bassa crescita rende impossibile prescindere dal rispetto dei vincoli di bilancio di finanza pubblica, poiché non consente di ripagare nel tempo l’onere dei debiti accumulati. Ecco le scelte che dovrebbe comunicare il governo del paese e quelle che potrebbe affrontare il prossimo governo dell'Unione
Nel 2022 e nel 2023 l’economia italiana è cresciuta in media più di quella dell’Eurozona, ha saputo creare occupazione e alimentato speranze di una “ripartenza” a lungo attesa, dopo ben tre decadi di underperformance rispetto sia ai paesi OECD che dell’area Euro.
Ma le prospettive nuovamente modeste di crescita attesa per l’anno in corso e il prossimo, nonostante il contributo degli ingenti (forse addirittura eccessivi) fondi destinati al Piano Nazionale di Resilienza e Ripresa, hanno rapidamente riportato al centro del dibattito quelli che sono i due nodi principali da sciogliere per il nostro paese: un debito pubblico molto elevato, in rapporto al PIL pari a quasi il 140%; una bassa crescita, sostanzialmente determinata da una produttività stagnante, ormai dalla metà degli anni ’70, ben 5 decadi.
Le due cose sono collegate, intimamente. E si possono leggere concentrandosi, a piacere, più sul primo o sul secondo aspetto. Un debito elevato riflette la cumulata di ingenti disavanzi del settore pubblico, cioè di spese superiori alle entrate, soprattutto negli anni ’70 e ’80, ma non solo. Che non possono protrarsi nel tempo, a meno di avere costantemente tassi di crescita superiori ai tassi medi di interesse pagati sul debito stesso. Una bassa crescita, appunto, rende impossibile prescindere dal rispetto dei vincoli di bilancio di finanza pubblica, poiché non consente di ripagare nel tempo l’onere dei debiti accumulati.
Non sempre ricorrere all’emissione di debito pubblico è un male. Ci sono momenti, nella vita degli Stati, come in quella degli individui o delle imprese, in cui indebitarsi è necessario od opportuno, e il ruolo del mercato dei capitali consiste appunto nel connettere in modo efficiente le unità in deficit e quelle in surplus, in ogni periodo. Così come una famiglia contrae un mutuo per acquistare una abitazione impegnandosi a ripagare il debito nel tempo, è possibile per lo Stato indebitarsi per contrastare gli effetti negativi di una crisi economica, che riducono temporaneamente le entrate fiscali, o per sostenere la salute dei suoi cittadini a fronte di una crisi sanitaria o pandemica, o per impegnarsi a favore di una ricostruzione a seguito di un evento climatico avverso, o per altri motivi ancora.
Ma non lo si può fare in continuazione, senza internalizzare esplicitamente l’obbligo di dover pianificare minori spese o maggiori entrate in futuro per ripagare i debiti contratti in precedenza. È questa consapevolezza e questo impegno che rendono i debiti pubblici di un paese più o meno “sostenibili” nelle opinioni e nelle aspettative dei mercati finanziari e degli investitori cui i governi si rivolgono per ottenere le risorse necessarie.
Ed è questo che, costantemente e con grande responsabilità, dovrebbe cercare di comunicare un governo alla guida di un paese con un elevato debito pubblico da gestire. Ricercando un confronto serio in merito ai progetti cui destinare nuove risorse ma anche a quelli da dismettere; alle spese da sostenere e a quelle da rimandare; alla “qualità” di queste spese in termini di capacità di soddisfare in modo adeguato i bisogni della cittadinanza; al giusto mix di imposte e tasse, su individui, imprese, consumi e patrimoni, con cui finanziare le spese correnti (per interessi, salari, pensioni, sanità e acquisti) e in conto capitale.
Sottostante a queste scelte, dovrebbe svilupparsi una riflessione seria e aperta sul ruolo assegnato allo Stato nell’economia e nella società, sui confini e le modalità della sua azione. Le visioni “classiche” sono distanti: l’impostazione ultra liberista limita il ruolo dello Stato a garantire la sicurezza interna ed esterna, la giustizia e livelli minimali di istruzione e sanità pubblica; una visione diametralmente opposta delinea invece uno Stato sociale esteso, che provvede a fornire tutti i beni pubblici ed interviene direttamente nella produzione e distribuzione di beni e servizi, anche in settori non universalmente considerati come “tipici” per la sua azione.
Ovviamente, il “posizionamento” scelto implica diverse combinazioni e ammontare di spese ed entrate pubbliche, ma non necessariamente queste diverse combinazioni si riflettono in diversi avanzi o disavanzi nel “saldo” tra le precedenti. Infatti, un bilancio in pareggio si può ottenere limitando al 30% del PIL sia le spese che le entrate della pubblica amministrazione o portandole entrambe al 50%. In nessuno dei due casi è necessario il ricorso a nuovo debito pubblico, tuttavia la vita sociale e, probabilmente, le prospettive di crescita, sarebbero ben diverse.
Una considerazione interessante, e non abbastanza sottolineata, riguarda la diversa composizione che generalmente caratterizza la spesa privata e quella pubblica. Mentre a livello aggregato tra consumi e investimenti del settore privato esiste normalmente un rapporto pari a circa 4 (60-64% del Pil vs. 15-18% tra consumi e investimenti), la percentuale di spese in conto capitale della pubblica amministrazione è normalmente molto sottodimensionata rispetto alla spesa corrente. Questo implica di solito che laddove la pubblica amministrazione ha dimensioni maggiori, la spesa complessiva per investimenti si riduce riflettendosi in una crescita potenziale del prodotto inferiore. Peraltro, sia pure con qualche eccezione, collegata al settore della difesa e dello spazio, la spesa in ricerca e sviluppo del settore privato domina decisamente quella del settore pubblico, e genera e diffonde innovazione di prodotto e di processo.
Sono argomenti affascinanti e sui quali la riflessione richiederebbe spazi non garantiti da quelli di un editoriale, ma è un fatto che risultano troppo marginali nel dibattito pubblico, e non solo in Italia. Le elezioni europee e la conseguente necessaria ricerca di una maggioranza nel futuro Parlamento dell’Unione Europea costituiscono un’occasione per confrontarsi su questi temi, aggiungendo alla riflessione anche la dimensione della più adeguata ripartizione tra livello comunitario e di stati membri nella fornitura di beni pubblici e nelle diverse modalità di copertura finanziaria delle spese a ciò connesse.
In ogni caso, come ha sottolineato il Governatore della Banca di Italia nelle sue Considerazioni Finali, l’Europa dovrebbe rapidamente progredire sia nella creazione di un titolo obbligazionario risk free comune, che nella rapida e migliore definizione di una capital markets union effettivamente funzionante e al servizio di una crescita economica più dinamica di quanto sperimentato nel passato recente dell’area. I prossimi cinque anni di legislatura sapranno fornire le risposte necessarie a riguardo?