NUOVE NORME FISCALI SUI PIR ALTERNATIVI
Al "contribuente 730" il credito d'imposta serve poco

intervista con Giuseppe G. Santorsola

Il credito d'imposta deciso dal governo per le minusvalenze sugli investimenti fatti quest'anno sui Pir alternativi è un regalo? L'abolizione del rischio d'investimento fatta con decreto? Ecco il parere di un esperto

di Paola Pilati

Nella legge di bilancio 2021 è stata introdotta una nuova agevolazione fiscale per chi investe in Pir alternativi nel corso di quest’anno. I Pir alternativi sono l’ultima evoluzione dei Piani individuali di risparmio, ideati nel 2017 per portare il risparmio delle famiglie verso le piccole imprese, che godono di una esenzione fiscale totale, purché l’investimento sia mantenuto per cinque anni. 

Ora il beneficio diventa un credito d’imposta: le eventuali minusvalenze degli investimenti “qualificati” fatti con i Pir alternativi quest’anno – investimenti che vanno mantenuti per cinque anni – non aspetteranno di essere compensati da eventuali plusvalenze negli anni successivi, ma diventano subito dei crediti nei confronti del fisco al momento della dichiarazione dei redditi. Si possono cioè sottrarre dal reddito. Con dei limiti: il credito d’imposta non può eccedere il 20 per cento dell’intera somma investita negli investimenti qualificati, ed è utilizzabile frazionato in dieci quote annuali. 

Un regalo l’abolizione del rischio d’investimento fatta con un decreto? «È il completamento di un quadro tributario per dare ai Pir due tipi di cuscinetti: uno quando le cose vanno bene, uno quando vanno male», risponde Giuseppe Guglielmo Santorsola, ordinario di Economia degli Intermediari finanziari all’Università Parthenope di Napoli. «Ma vediamo anche quant’è questo credito: non può superare il 20 per cento dell’investimento sottoscritto e non è utilizzabile nell’anno in cui si manifesta, ma va spalmato in 10 anni. Nell’ipotesi migliore sarà del 2 per cento l’anno. Ma il mercato dovrà essere crollato del 20 in un anno, ipotesi che nel passato si è realizzata raramente». 

Sta dicendo che sul piano pratico il “regalo” è poca cosa?

«Osservo solo che mentre non pagare le imposte sui redditi finanziari è un vantaggio immediato, a un credito d’imposta devi stare dietro, prevede il lavoro di un commercialista…Ma c’è un altro aspetto da mettere in luce». 

Quale?

«Che la regola vale non per tutta la quota investita, ma solo per gli investimenti qualificati. E quali sono? Nei Pir alternativi sono gli strumenti finanziari di società fiscalmente residenti in Italia o con stabile organizzazione in Italia, diverse da quelle inserite negli indici Ftse Mib e Ftse Mid Cap della Borsa italiana o in indici equivalenti di altri mercati regolamentati, nonché i prestiti e crediti erogati alle predette. Ma chiedo: cosa succede se gli investimenti non qualificati perdono di più di quelli beneficiari del credito d’imposta? O, viceversa, se realizzano plusvalenze (su cui pagare imposta), mentre quelli qualificati non realizzano rendimento?».

È per questi aspetti che questi nuovi Pir non sembrano particolarmente promozionati dalle reti distributive?

«Bisogna tenere in considerazione che in questa versione i Pir  non vengono venduti al singolo risparmiatore, ma confezionati da un intermediario mettendo insieme prodotti di diversa natura “Pir compliant”. Con questa soluzione si porta in mano al risparmiatore un investimento più high yield, ma lasciando la gestione del rischio a uno che dovrebbe essere più bravo di lui».

La finalità del Pir alternativo è quindi di cercare di alzare il rendimento di questi strumenti?

«Di aumentare la combinazione rischio-rendimento. Che poi va gestita. Il difetto dei Pir stava nel fatto che per dare il vantaggio fiscale non sempre la componente obbligatoria del portafoglio poteva risultare la migliore. E lo si è visto nel 2018: quando i mercati sono andati male, i Pir sono andati in crisi perché non hanno avuto rendimenti sui quali avrebbe agito l’agevolazione tributaria».

Non è che i gestori dei Pir, potendo contare sul vantaggio fiscale, sono stati meno attenti alla qualità delle scelte?

«È vero che quando i livelli di competizione si alzano, bisognerebbe continuare a fare il gestore prescindendo dalla componente fiscale. Ma c’è anche il fatto che abbiamo educato il risparmiatore a non prendere grandi rischi. Occorre trovare una via intermedia tra l’esigenza di fargli vivere dei rischi – altrimenti non c’è il rendimento – e le norme che obbligano gli intermediari a tutelare questo tipo di risparmiatori perché non facciano passi falsi. È il conflitto tra i principi sacri della Mifid e il modello che predispone i Pir alternativi. Anche se il disegno strategico di lungo periodo di altre direttive sta cercando di spiegare ai mercati che essere alternativi non vuol dire più pericolosi». 

Il valore semantico della parola “rischio” è diverso in finanza e nel sentire comune…

«Ai miei studenti dico spesso che la colpa dell’utilizzo distorto della parola rischio è di molte mamme che dicono ai bambini: rischi di cadere, di prendere freddo… Perciò quando arrivano all’università alla parola rischio associano un pericolo. Bisogna enfatizzare il concetto che il rischio in finanza ha una distribuzione normale, per cui se non rischi di perdere, non potrai mai neanche rischiare di guadagnare».

La nuova norma sui Pir si limita insomma a un po’ di marketing tributario?

«Dico solo che per un “contribuente da 730” risulterà difficile utilizzarlo. Come ho dei dubbi sul vincolo dei 5 anni: anche il BTP Futura ha un premio fedeltà, ma siamo sicuri che per il Tesoro sia un vantaggio che resti nel cassetto invece di avere un mercato secondario eccellente? O i patti di famiglia per la piccola impresa in cui per cinque anni devi mantenere l’oggetto sociale e non vendere pur di avere il vantaggio fiscale? Ma se qualcuno mi riempie di soldi, non mi preoccupo di pagare le tasse sul profitto. Se io sono vincolato nei Pir per 5 anni, vi destino quote inferiori del mio risparmio, se ho un margine di libertà di uscita, magari sono disponibile ad aumentare il mio impegno, per esempio con l’uso del Pac, il piano di accumulo». 

Qualcosa da salvare?

«Mi convince invece l’idea del Pir alternativo, che contrasta l’idea corrente del fai-da-te. La logica economica moderna suggerisce che tu ti rivolgi ad un esperto. Scelgo un investimento e gli resto fedele, ma quell’investimento si deve muovere. Negli ultimi 10 anni, non c’è asset class che sia rimasta stabile: quella che un anno vinceva, l’anno dopo andava giù. Anche le azioni cinesi, che sembravano le regine della classifica, poi sono retrocesse nelle ultime posizioni. Un gestore si può tuffare negli investimenti di volta in volta più vantaggiosi, anche se io resto ancorato a lui». 

I risparmiatori non sembrano abituati a fare così.

«La tendenza del cliente a cambiare sta diminuendo. E mentre un tempo un promotore passava di società e si portava dietro una buona fetta dei suoi clienti, ora che viene chiamato consulente, se cambia casacca non riesce a fare lo stesso. Vincono le società producer, non tanto i distributor». 

In questo senso i Pir sono una buona soluzione?

«Sì: lo sposi, hai uno svantaggio se lo tradisci, non ti fai influenzare dall’andamento a breve dei mercati, resti dentro. Il 2020 ha dimostrato che chi non è stato preso dal panico a marzo, ora è contento».