Un'Italia immalinconita, che si sente impotente di fronte ai grandi eventi che hanno sconvolto il mondo. Invece di reagire alle emergenze con uno scatto, come succedeva in passato, si ripiega su se stessa, non scende in piazza ma attende. Le risorse individuali sono scariche, quelle collettive mancano. Ecco cosa ci racconta l'ultimo Rapporto sulla situazione sociale del paese
Un appello alla classe dirigente del paese, un appello alla classe politica. “La società ha bisogno di riattivare i meccanismi proiettivi verso il futuro. Le semplici rassicurazioni non bastano più”. Nel suo ultimo Rapporto sulla situazione sociale del paese, il Censis allarga lo sguardo a come è cambiata la società italiana negli ultimi tre anni, e l’immagine che ne restituisce è quella di un’Italia immalinconita, che di fronte ai grandi eventi che hanno sconvolto il mondo, dalla pandemia alla guerra, si sente impotente. Invece di reagire alle emergenze con uno scatto, come succedeva in passato, si ripiega su se stessa, non scende in piazza ma attende. Le risorse individuali sono scariche, quelle collettive mancano.
Viviamo nel tempo di latenza, dice il Censis. Nel tempo, cioè, che intercorre tra l’input dato dal calcolatore e l’elaborazione della risposta o quello in cui l’esposizione a un virus si manifesta in malattia. Una latenza che non può durare troppo a lungo: l’attesa di qualcosa che non arriva ti mette in una condizione di rinuncia strutturale che ti impedisce di rimetterti in cammino.
Mettere sul lettino dello psicanalista un intero paese non è mai facile. Ma il Censis non ha soltanto dei sensori affinati con l’esperienza, ha anche una grande sapienza di introspezione. Che quest’anno coglie in modo particolarmente centrato questo tempo sospeso che ci avvolge tutti. Un tempo in cui l’inflazione attenua le differenze tra garantiti e no, penalizza il risparmio precauzionale, inchioda tutti nella crescita zero.
Un’Italia che politicamente viene definita del post-populismo, in quanto i bisogni di sostegno espressi dalla società vengono oramai fatti propri dalle élite politiche, che in questo modo tolgono spazio alle richieste dei leader più demagogici. Ma anche un’Italia in cui il primo partito – 18 milioni di persone – è quello della astensione.
L’Italia in cui la società viveva dell’intreccio virtuoso tra lavoro, benessere economico e democrazia è scomparsa, il meccanismo si è inceppato. Ora è immersa nell’età dei rischi. Rischi da cui si sente impotente e indifesa: l’84% degli italiani pensa che eventi lontani da noi possano comunque travolgerli; il 61% teme una terza Guerra Mondiale; il 59% ha paura della bomba atomica; il 58% pensa che il paese può entrare in guerra.
Se sposta lo sguardo dai grandi eventi che non può dominare al panorama di casa nostra, lo stato d’animo del corpo sociale non può che deprimersi ancora di più. La povertà che aumenta (siamo a 5,2 milioni di persone), il lavoro che conosce solo la modalità precaria (l’83 per cento delle nuove assunzioni fatte con contratti a termine o atipici), la cifra di laureati più bassa d’Europa (il 26,8% contro il 41,6 in Europa), un record di Neet (il 23% contro il 13 in Europa). A cui si aggiungono la prospettiva di una scuola presto senza studenti per via dell’andamento demografico (la popolazione tra i 3 e i 18 ani scenderà da 8,5 milioni a 6,8 in vent’anni), una sanità svuotata di professionisti causa pensionamento (esodo biblico di medici e infermieri nei prossimi 15 anni), una Pubblica amministrazione peso morto e inutile (solo il 3 per cento pensa che funzioni bene).
Unico dato positivo, la capacità di export della parte più vitale delle imprese, che hanno rapidamente ri-orientato la loro attività in chiave friend-shoring: verso l’Europa, il Nordamerica, l’area mediterranea. Ma può bastare?
No. Come dimostra anche il fatto che il 56 per cento degli italiani si sente esposto e vulnerabile ai reati contro la persona o la proprietà, mentre nella realtà sono diminuiti vistosamente negli ultimi anni: del 48 per cento le rapine, del 42 i furti nelle abitazioni, del 47 quelli delle auto.
I “cittadini perduti della Repubblica” – che riecheggiano i bambini perduti di Peter Pan in cerca dell’isola che non c’è – abbandonati a se stessi e senza più meccanismi proiettivi, non trovano dentro di sé alcun motivo per crescere. Otto su dieci dichiarano di non voler fare sacrifici per cambiare; il 36% di chi lavora non intende più sacrificarsi né per la carriera né per guadagnare di più.
Il dominio dell’io sul mondo e sugli eventi è finito. La risposta non può venire che dalla ricostruzione di uno spirito collettivo, di una spinta verso il futuro. Di un ceto dirigente in grado di indicare la strada della crescita o almeno del cambiamento e che scacci la malinconia. Che non sia insomma esso stesso un Peter Pan. Buona fortuna a noi tutti.