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Addio alle banche, le imprese si finanziano altrove

Il miglioramento della congiuntura economica non riaccende la domanda di credito delle imprese italiane. Il fenomeno sta acquisendo un profilo strutturale e sembra spinto da due tipi di cause, tra loro complementari: da un lato mutamenti nella gestione aziendale finalizzate ad un ridimensionamento dell’indebitamento esterno, e quindi inevitabilmente causa di una minore richiesta di prestiti bancari; dall’altro lato, crescita della capacità di offerta dei canali finanziari non bancari.

Silvano Carletti
Carletti

La domanda di finanziamenti bancari da parte delle società non finanziarie continua a presentarsi in Italia decisamente anemica. Nel dicembre scorso il relativo aggregato (corretto per cessioni di prestiti, cartolarizzazioni e cash pooling) risultava nel nostro Paese in crescita di appena + 0,5% a/a. Il dato medio per l’intero 2017 è ancora più modesto: +0,1% a fronte del +6,6% del Belgio, del +5,2% della Francia, del +3,8% della Germania; tra i maggiori paesi dell’area la progressione è più modesta solo in Spagna (0%) e in Olanda (-0,6%); la media dell’eurozona si posiziona al 2,5%.

La debole richiesta di prestiti delle imprese italiane è in contrasto con i dati della congiuntura economica. Nel 2017, per il quarto anno consecutivo, il nostro Paese è risultato in crescita, con un promettente risveglio degli investimenti. Se si esclude quello primario, tutti gli altri settori registrano progressi, andamento cui non è più estraneo il comparto delle costruzioni. Altrettanto positivi i segnali che provengono dal mondo delle imprese. Nel 2017 il valore del fatturato del settore industriale è salito del 5,1%, crescita che riporta l’indice al livello del 2008. Migliora la situazione dei pagamenti e diminuiscono i fallimenti. Lo scorso anno questi ultimi sono scesi sotto le 12mila unità, una grandezza orientativamente intermedia tra il massimo del 2014 (15.350) e il dato del 2009 (quasi 9.400).

La richiesta di credito da parte delle imprese, inoltre, non sembra in Italia sensibile al modesto livello raggiunto dai tassi d’interesse. All’ultima rilevazione (dicembre 2017) il costo medio ponderato per un nuovo finanziamento risultava in Italia (1,79%) molto vicino al dato medio dell’eurozona (1,70%) o anche a quello richiesto ad un’impresa tedesca (1,75%).

Come è sempre più evidente (particolarmente in questi mesi) la debole crescita dei prestiti alle imprese italiane è prevalentemente un problema di domanda piuttosto che di offerta. Molte circostanze, infatti, testimoniano che grazie al perdurante tono accomodante della politica monetaria europea le banche sono generalmente disponibili a valutare positivamente le richieste di finanziamento delle società non finanziarie.

Riflettendo sulle informazioni a disposizione, sembra inoltre acquisito che il fenomeno ha un carattere ampiamente strutturale. Nella ricerca di una possibile spiegazione si possono (molto schematicamente) distinguere due diversi percorsi, tra loro complementari: il primo guarda ai mutamenti nella gestione aziendale che hanno determinato un ridimensionamento dell’indebitamento esterno, e quindi inevitabilmente una minore richiesta di prestiti bancari; il secondo si concentra, invece, sulla crescita della capacità di offerta dei canali finanziari non bancari.

Prima di procedere è importante evidenziare che si è arrestato il processo di restringimento della base imprenditoriale indotto dalla crisi, con importanti segnali di recupero negli anni più recenti. Secondo il Rapporto Cerved PMI 2017, il numero delle PMI, sceso a 136mila nel 2014 (dalle 150mila unità del 2007), sta risalendo attestandosi a quota 145mila a fine 2016 e quasi certamente recuperando il livello pre-crisi nell’anno appena trascorso.

I dati che illustrano la dinamica delle nuove erogazioni alle imprese distinguono tra prestiti bancari di importo inferiore ad un milione di euro e operazioni al di sopra di questa soglia, con le seconde evidentemente riferibili ad imprese di significativa dimensione. Orientativamente le quote delle due componenti sono 40-60. Guardando al loro andamento si rileva che in questi ultimi anni le operazioni di ammontare più limitato (pur con qualche fluttuazione nei due sensi) sono rimaste sostanzialmente stabili mentre quelle al di sopra del milione di euro risultano in flessione, una tendenza accentuatasi proprio nel periodo più recente (-13% nell’intero 2017, -15% a/a nel solo secondo semestre).

Nel caso delle imprese di maggiore dimensione l’indebolimento dei rapporti con il circuito creditizio è fenomeno avviato da tempo e che si manifesta con diversa intensità a causa di mutamenti nelle rispettive convenienze. Molto più articolato e ancora sicuramente in evoluzione lo stesso fenomeno considerato sul fronte delle PMI. Secondo l’analisi del Cerved il 39% delle PMI non ricorre al canale bancario, in gran parte perché preferisce autofinanziare completamente le sue attività, in parte minore (poco più di 12mila imprese) perché fa riferimento a fonti di finanziamento non bancarie. Rispetto al 2009 la quota delle PMI che elude il canale bancario risulta aumentata di circa 10 punti percentuali. Esiste poi un 19-20% di PMI che ha un debole legame con le banche. Altre 58mila PMI risultano avere un legame intenso con il canale creditizio (finanziamenti bancari tra il 10% e il 50% del loro bilancio). Fortemente dipendenti dal canale bancario (il credito eccede il 50% del totale attivo) sono le restanti PMI: dal 10,5% nel 2009 sono scese all’attuale 4,5% (6mila imprese).

Tra le molte novità evidenziatesi in questi anni nel profilo delle aziende italiane un posto importante è occupato dal processo di rafforzamento patrimoniale, il cui sviluppo ha contribuito notevolmente alla riduzione della leva finanziaria. Tra il 2007 e il 2016 il rapporto tra debiti finanziari e patrimonio delle PMI italiane è sceso in misura molto rilevante. In una prima fase la discesa del rapporto è riconducibile sia alla crescita del patrimonio (denominatore) sia alla diminuzione dei debiti finanziari (numeratore). Dal 2015 la riduzione dell’indebitamento si è arrestata, per invertirsi l’anno successivo.

Pur rallentata, la riduzione della leva finanziaria prosegue. Come segnala una ricerca curata da KFinance–Borsa Italiana, alla fine dello scorso anno il processo di irrobustimento patrimoniale era ancora in corso, interessando tuttavia solo una parte delle imprese: dall’esame dei bilanci di 50mila imprese non finanziarie con fatturato superiore a 5 milioni di euro emerge che tra esse 39mila hanno nel 2016 incrementato il loro patrimonio, mentre le restanti 11mila hanno registrato una diminuzione di questa grandezza.

La tendenza evidenziata da questa ricerca è destinata a proseguire. Malgrado gli incentivi previsti dall’ultima legge di bilancio, però, difficilmente più intenso diverrà il flusso delle nuove quotazioni di PMI. A sostenere il rafforzamento patrimoniale del sistema imprenditoriale italiano, quindi, sarà ancora e soprattutto il reinvestimento di parte dell’utile aziendale.

Espressione di un mutamento nella gestione della finanza aziendale è la tendenza a mantenere una più rilevante dotazione di liquidità. Alla crescita dei ricavi segue con accresciuta frequenza un aumento delle disponibilità liquide interne e parallelamente una più ampia quota di investimenti viene finanziata attraverso risorse interne.

L’osservazione della dinamica dei depositi delle società non finanziarie evidenzia come l’evoluzione in atto in Italia sia simile a quanto parallelamente avviene nel resto dell’eurozona. Alla fine del 2017 i depositi delle imprese italiane ammontavano a € 280 mld, in crescita del 12% a/a (30 mld di euro), un ritmo di incremento doppio rispetto all’insieme dell’eurozona (+6,6%) e alla Germania (+6,2%), più elevato ma in misura più limitata rispetto a Spagna (+9,7%) e Francia (9,0%). Con importi molto simili Germania e Francia determinano da soli circa metà dell’intero aggregato a livello di eurozona (€2.400 mld). Il livello decisamente modesto dei rendimenti finanziari (in larga misura negativi) spiega in ampia misura la consistenza di quest’aggregato.

La crescita dei depositi bancari delle imprese risente certamente della particolare congiuntura finanziaria ma nel caso italiano lascia intravedere anche un mutamento della gestione aziendale. Se si guarda agli ultimi cinque anni l’aggregato risulta cresciuto in Italia del 48% (90 mld), un incremento comparabile a quanto proposto dalla Francia (+52%) ma sensibilmente più elevato di quello rilevabile in Germania (+30%), in Spagna (+27%) o anche nell’insieme dell’eurozona (+37%). Nell’ultimo anno la più intensa progressione di Italia (+11,9% a/a) e Francia (+9%) è particolarmente evidente (+6,6% la media per l’eurozona, + 6,2% il dato della Germania).

Negli anni della crisi economico-finanziaria si è anche intensificato il fenomeno del cash pooling, e cioè la messa “in comune” delle disponibilità finanziarie delle diverse componenti di un gruppo aziendale. Quella dei gruppi societari è invero in Italia una realtà importante: due terzi degli addetti del settore industriale operano in circa 200mila imprese inserite in gruppi societari. L’operare di questo meccanismo di riallocazione ha certamente indebolito il ricorso a fonti finanziarie esterne, tanto più quando queste sono divenute più costose o difficili da accedere. Pur in assenza didocumentazione, è ragionevole ritenere che l’uscita dalla crisi economico-finanziaria non abbia comportato la rinuncia a gestire le problematiche finanziarie a livello di gruppo piuttosto che a livello semplicemente aziendale.

Ad indebolire la dinamica dei prestiti ha contribuito in qualche misura lo sviluppo di altre modalità di finanziamento bancarie, quali il leasing e (soprattutto) il factoring. Decisamente più importante è stato però lo sviluppo del mercato obbligazionario. Per l’insieme dell’eurozona alla fine del 2017 questo canale risultava contribuire per quasi il 23% al totale del finanziamento esterno delle imprese (prestiti bancari + obbligazioni societarie). Ben oltre questo dato medio si posizionano Belgio e Portogallo(al di sopra del 31%) ma soprattutto la Francia (37%); viceversa al di sotto del dato medio dell’eurozona si trovano i Paesi Bassi (19%), Italia e Germania (entrambe intorno al 16%) e soprattutto la Spagna (al di sotto del 7%).

Se si esclude il breve termine (scadenza entro i dodici mesi) e ci si concentra quindi sulle operazioni a medio/lungo termine la crescita del circuito obbligazionario nel finanziamento delle imprese è anche più evidente risultando pari al 26% a fine 2017 per l’intera eurozona. La Germania arriva a sfiorare il 18%, la Spagna si ferma al di sotto dell’8%, la Francia supera il 40%. L’Italia, da parte sua, sale al 22,5%

Indicazioni interessanti si ricavano osservando la dinamica di questa quota. Sempre focalizzando l’attenzione sulle operazioni di finanziamento eccedenti il breve termine, a livello di eurozona la crescita del ruolo del mercato dei corporate bond si presenta relativamente regolare: +5,2 punti percentuali nel quinquennio 2007-12, +6,4 pp nel quinquennio successivo, quindi con una crescita del suo peso nel decennio 2007-17 di quasi 12 punti percentuali, poco meno di un raddoppio. Scendendo nel dettaglio dei diversi paesi il quadro si presenta articolato. Nel quinquennio appena concluso la quota in esame subisce in alcuni paesi movimenti trascurabili (è il caso di Austria e Grecia), in altri solo contenute correzioni. Per quanto riguarda i principali paesi dell’area, invece, l’accresciuto ruolo del circuito obbligazionario è ben visibile: +3,2 punti percentuali nei Paesi Bassi, +3,5 pp nel caso della Francia, +5,2 pp per la Spagna, +6,4 pp per la Germania. Per quanto riguarda l’Italia, l’incremento registrato nel più recente quinquennio (6,8 pp) eccede quello medio dell’intera eurozona.

E’ importante sottolineare che i dati Bce forniscono una sottostima dell’effettivo contributo dei corporate bond al finanziamento delle imprese. Le statistiche Bce infatti non coprono alcune fattispecie e in particolare quella dei titoli emessi da istituzioni finanziarie (estere) a beneficio di imprese non finanziarie dello stesso gruppo, una procedura con vantaggi fiscali e possibilmente anche normativi.

Sulla crescita del mercato dei corporate bond e sulla natura continentale di questo fenomeno ha sicuramente influito sia la caduta verticale dei rendimenti offerti dai titoli pubblici (negativi per un’ampia fascia di scadenze) sia il programma di acquisti di obbligazioni societarie avviato nel luglio 2016 dalla Bce (€142 mld a gennaio 2018).

La crescita del mercato dei corporate bond è stata in Italia decisamente rilevante sul piano quantitativo. Alla fine dello scorso anno l’ammontare         dei titoli in circolazione risultava pari a €144 mld, 80 mld in più rispetto a 10 anni prima. Rispetto al 2012, i finanziamenti bancari risultano a fine 2017 inferiori di quasi €130 mld, l’ammontare delle obbligazioni societarie è invece incrementato di circa €40 mld. Se ci si concentra sul solo 2017 la crescita dei corporate bond (+€20,5 mld) è quasi sovrapponibile alla contrazione dei finanziamenti oltre il breve termine (-€24,5 mld).

Al di là dell’evidenza quantitativa, la crescita del mercato dei titoli di debito societari propone importanti novità di rilievo qualitativo, in larga misura concentrati nello sviluppo del mercato dei mini-bond il cui avvio si deve al Decreto Sviluppo 2012. In poco più di quattro anni (la prima emissione risale al luglio 2013) sono state effettuate 467 emissioni, delle quali 398 al di sotto di €50 mln. I corrispondenti dati per il 2017 (170 e 147) e per il 2016 (110 e 87) mettono bene in evidenza la progressione di crescita del mercato. Le imprese emittenti sono state complessivamente 326, delle quali 162 sono PMI (77 su 137 nel 2017).

Alla fine del 2017 le emissioni di mini-bond risultavano aver raccolto poco meno di €17 mld, dei quali €5,5 mld nell’anno appena trascorso. A questo totale le PMI hanno contribuito con emissioni pari a €2,9 mld, per circa la metà effettuate nel 2017. Molti altri dati mettono in evidenza che la mission affidata allo sviluppo del mercato viene perseguita con efficacia: nel 2017 ben 103 delle 137 imprese emittenti erano alla loro prima esperienza; le emissioni di importo modesto (entro i €10 mln) sono (numericamente) due terzi del totale (il 70% nel 2017); quasi un’impresa emittente su quattro è di dimensioni decisamente contenute (fino a €10 mln di fatturato).

I titoli emessi hannouna durata media di 5,4 anni. La cedola è quasi sempre fissa e i tre quarti delle emissioni sono prive di garanzie. La metà delle emissioni paga una cedola entro il 5%. Un terzo delle emissioni del 2017 ha proposto una cedola non superiore al 4%.