La rivalutazione delle quote di capitale della banca centrale risolve alcuni problemi ma ne lascia altri irrisolti. Uno, in particolare, si aggrava: il peso degli azionisti nella gestione operativa. Perché con la riforma le possibilità di ingerenza aumentano
Il Governatore della Banca d’Italia nella sua audizione parlamentare, resa in fase preparatoria al provvedimento allora in discussione alle Camere, ha attribuito alla riforma, tra l’altro, l’obiettivo di realizzare una migliore comunicazione, per rispondere in modo chiaro alla errata e diffusa percezione di chi temeva la possibile ingerenza dei partecipanti al capitale – e quindi delle banche sottoposte alla sua vigilanza – nella gestione della medesima.
Non c’è dubbio che la riforma del gennaio scorso ha modificato quella percezione, ma in tutt’altra direzione, provocando anzi un’accesa polemica sul c.d. regalo alle banche.
L’espressione è suggestiva, ma il regalo è da escludere, resta però la constatazione che se tra gli obiettivi affidati al titolo II della l. n. 5 del 29 gennaio scorso, si possono individuare l’adeguamento del valore del capitale della Banca d’Italia, fermo al dato nominale del 1936, e chiarire le prerogative dei partecipanti, i risultati di più immediata evidenza sono una plusvalenza tassata, funzionale alle ben note esigenze di natura fiscale, ed un contributo significativo alla stabilità del sistema creditizio, per effetto della modificazione della natura delle quote di partecipazione.
Non è invece possibile individuare una migliore definizione dei rapporti con i partecipanti ed un modello di governance, capaci di arginare il rischio di conflitto d’interessi. Insomma non si è fatta l’invocata chiarezza
L’adeguata dotazione patrimoniale di una banca centrale è uno degli elementi fondanti della sua indipendenza, indispensabile per assicurare la sua capacità di fronteggiare i rischi finanziari e garantirne l’autonomia operativa. Le modalità di costituzione di questa dotazione nella Banca d’Italia hanno assunto un carattere peculiare, che vede scissa la proprietà del capitale dalla proprietà dell’istituto, che resta pubblica.
Il legislatore ha voluto disciplinare la materia in modo da suscitare un mercato delle quote di partecipazione nel capitale e consentire così una loro valutazione al fair value. E’ con questo passaggio che si è reso possibile il superamento del filtro prudenziale sin qui applicato dalla stessa banca centrale e permesso di conseguenza alle banche partecipanti di computare il valore della loro partecipazione nel patrimonio di vigilanza, con benefici effetti per gli stringenti coefficienti di solvibilità.
Nella scelta di dotare la banca centrale di un capitale formato su base volontaria e configurato su modelli di mercato si può leggere una continuità con l’attuale assetto proprietario e con lo stesso processo di privatizzazione del sistema, che già aveva mutato la natura dei partecipanti da soggetti pubblici in banche di diritto privato. Una configurazione che, di per sé, non sarebbe di ostacolo a soluzioni diverse, come, ad esempio, la costituzione di un fondo di dotazione sul modello delle fondazioni civilistiche, a sottolineare l’onere a carico dei soggetti vigilati di fornire le risorse necessarie per il miglior andamento dell’ente di controllo, con esclusione di ogni possibile ingerenza nella gestione.
In questo caso però non si avrebbero più degli strumenti finanziari valutabili al mercato, né la conseguente valorizzazione nei bilanci bancari e sembra allora che tra la possibilità di chiarire davvero i rapporti tra chi apporta i mezzi finanziari e chi gestisce e l’opportunità di fornire un importante contributo agli attivi delle banche abbia prevalso quest’ultima esigenza.
La presenza del privato viene definita quale elemento che ha contribuito al successo del modello Banca d’Italia, costituendo fattore di bilanciamento rispetto al potere politico della mano pubblica, e motivando così l’abrogazione del decimo comma dell’art. 19 della l. n. 262 del 2005, che aveva tentato il ritorno del capitale verso soggetti pubblici.
L’argomento che vuole legare il buon andamento e la stessa indipendenza della Banca d’Italia alla presenza di soggetti privati nel suo capitale è debole. I medesimi istituti di credito hanno assunto le loro partecipazioni, quando avevano natura pubblica e la loro trasformazione in soggetti di diritto privato non ha provocato apprezzabili mutamenti negli equilibri dell’istituto di vigilanza.
Soprattutto si deve osservare che se è vero che i partecipanti al capitale non possono ingerirsi delle attività istituzionali della Banca, la loro natura giuridica è comunque ininfluente.
Ugualmente ininfluente appare anche la loro sede, quando invece il legislatore ha voluto chiudere la possibilità di partecipazione al capitale a quei soggetti che, pur rispondendo ai requisiti del tassativo elenco dei possibili investitori, hanno sede legale o amministrazione centrale fuori d’Italia. Sembra qui di pagare un prezzo ad un malinteso protezionismo, visto che i partecipanti non devono avere ingerenza nella gestione, salvo ritenere che nemmeno il legislatore ne sia pienamente convinto.
Resta aperta invece la possibilità d’ingresso per le fondazioni di origine bancaria ed è prevedibile, che ora, con la necessità di ridurre le percentuali eccedenti i nuovi limiti, il loro apporto sia considerato prezioso. Ci si può attendere ancora un comportamento, già più volte definito responsabile, nelle ripetute occasioni in cui è stato necessario fornire sostegno patrimoniale al sistema. Sono numerose però le fondazioni ancora socie dei medesimi istituti di credito che devono ridurre le proprie partecipazioni, sicché queste, almeno in qualche caso, si potranno diluire in mano agli stessi soci delle banche partecipanti.
E’ piuttosto la disciplina che regola le prerogative dei partecipanti che deve fornire gli strumenti per evitare il rischio del conflitto d’interessi. Su questo piano però la riforma non ha modificato le regole introdotte dalla stessa l. n. 262 del 2005 ed in particolare resta confermato all’Assemblea dei partecipanti il potere di nomina dei membri del Consiglio superiore della Banca d’Italia.
Di quell’intervento normativo, nato in altro clima politico, si è voluto cancellare soltanto il tentativo di ricondurre il capitale della banca centrale in mani pubbliche, mentre si sono mantenute le scelte sulla governance. Non solo, il Consiglio superiore si arricchisce di nuove funzioni: la verifica dei requisiti dei soggetti che saranno candidati a farne parte e l’indicazione delle modalità di riacquisto delle proprie quote da parte della Banca.
Fermando l’attenzione al solo aspetto che riguarda il riacquisto delle proprie quote, ben si vede che se la previsione ha carattere strumentale rispetto ad esigenze di liquidità e buon funzionamento di quel mercato, non comporta però soltanto un trasferimento transitorio di risorse dalla Banca agli azionisti. Altera infatti lo stesso rapporto tra capitale e attività istituzionali, chiamando la banca centrale ad intervenire negli equilibri di partecipazione con proprie risorse, che vengono distolte dalle finalità tipiche, finendo per violare quella separazione tra dotazione patrimoniale e gestione che si vuole netta.
Il Consiglio superiore accresce il suo peso e, intervenendo nel riacquisto delle quote, entra nel delicato rapporto tra risorse proprie dell’ente e capitale degli azionisti. Le garanzie d’indipendenza finiscono allora per trovare tutela nella composizione e nelle modalità di nomina del Consiglio, che, se non è espressione degli organi dei partecipanti, certamente è da questi ad essere scelto.
E’ proprio questo potere di nomina da parte dei partecipanti ad assumere un ruolo centrale nell’equilibrio tra le esigenze dei detentori delle quote e le finalità istituzionali della Banca d’Italia.
Un forte segnale nella direzione della chiarezza sarebbe allora proprio l’eliminazione di quell’organo, che costituisce il momento di raccordo proprio con quei partecipanti al capitale che vanno esclusi da ogni ingerenza, anche potenziale.
La riforma non risponde soltanto a problemi di percezione, non c’è dubbio infatti che attraverso l’adozione di un sistema di circolazione delle quote si è scelto di fornire sostegno alla stabilità del sistema, pagando però un prezzo sul piano della irrisolta questione del conflitto d’interessi e introducendo anche un ulteriore rischio, che risiede proprio nelle motivazioni d’investimento dei partecipanti. Come in ogni situazione di mercato le loro decisioni si fonderanno sul lucro e quindi sul dividendo atteso, con la conseguenza che le funzioni istituzionali della banca centrale potranno essere condizionate dalla necessità di produrre utili ed avere così uno scopo di lucro, che, al contrario, è estraneo ai fini di una banca centrale.