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A new normal?

Il dilemma delle banche centrali tra alta inflazione e rischi di stagnazione

In Europa, il quadro complessivo dipende dagli sviluppi del conflitto in Ucraina. Qualora questo terminasse a breve, è plausibile che i fattori di rischio downside all’economia possano rapidamente essere riassorbiti, conducendo la BCE a valutare, subito dopo l’estate, la cessazione degli stimoli e l’avvio della normalizzazione della politica monetaria anche sul fronte dei tassi di interesse. Un prolungamento della guerra consiglia invece di non attivare interventi che potrebbero rendere inevitabile una nuova forte contrazione dell’attività economica nell’Eurozona

Giorgio Di Giorgio
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Il 16 marzo, la Federal Reserve ha avviato la normalizzazione della politica monetaria negli Stati Uniti, terminando il programma di acquisto di titoli e aumentando il tasso di interesse obiettivo sui federal funds di 25 basis points. La decisione, già ampiamente anticipata dai mercati, segue una dinamica macroeconomica caratterizzata da una inflazione in crescita e da un livello ancora sostenuto dell’attività economica e dell’occupazione, con un tasso di disoccupazione inferiore al 4%.

Si può tranquillamente sostenere che, in assenza dell’invasione russa in Ucraina, l’aumento dei tassi di interesse sarebbe stato più pronunciato, ad evidenziare la necessità di frenare aspettative di inflazione ormai completamente disallineate rispetto all’obiettivo di un tasso di inflazione medio al 2%. Ed anche nel contesto attuale, la decisione è stata presa a maggioranza, perché uno dei membri votanti del Comitato sulle operazioni di mercato aperto (il FOMC, organo decisionale della politica monetaria USA), James Bullard, avrebbe comunque desiderato un intervento più incisivo.

La Fed ha annunciato inoltre che, sulla base dei dati e delle previsioni ad oggi disponibili, è plausibile ipotizzare nuovi e ripetuti aumenti dei tassi di interesse nei prossimi 12-24 mesi, con un possibile ritorno del fed funds rate a livelli intorno al 2,5%. Lo stesso bilancio della Fed, cresciuto enormemente negli ultimi 15 anni, dovrebbe gradualmente ridursi a seguito di decisioni di non reinvestire i proventi derivanti dal rimborso dei titoli acquisiti o addirittura di procedere, nel tempo, a vendere sul mercato parte degli stessi.

La capacità di governare adeguatamente gli sviluppi dei prossimi mesi, sarà rilevante per evitare volatilità e disordine sui mercati finanziari, già turbati dalle incertezze geopolitiche dovute al conflitto russo-ucraino e preoccupati delle connesse tensioni indotte dalla dinamica dei prezzi energetici e di beni alimentari necessari. 

Una situazione non molto diversa caratterizza l’attuale dibattito, in seno alla BCE, sulla opportunità di iniziare un percorso simile di normalizzazione della politica monetaria anche nell’Eurozona. L’ultima rilevazione del tasso di inflazione, calcolato sulla variazione dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo, misura un valore, il 5,9%, che è il più elevato in assoluto da quando Eurostat fornisce il dato.

Le componenti energetiche ed alimentari trainano la crescita dell’indice, risentendo fortemente delle tensioni innescate dalla guerra e dell’interruzione totale o del forte rallentamento indotto nella catena logistica di approvvigionamento di input e prodotti intermedi fondamentali nei processi produttivi. Già prima dell’invasione russa, la BCE aveva annunciato la chiusura del programma straordinario di acquisti legato all’emergenza pandemica, il Pepp, per fine marzo. Si tratta di un programma particolarmente importante dato che è l’unico completamente svincolato dalla cosiddetta capital key rule, che impone altrimenti alla BCE di rispettare negli acquisti di titoli le percentuali detenute dagli Stati membri nel suo capitale.

Questo annuncio era stato tuttavia  accompagnato da quello di un potenziamento del programma standard di acquisti di titoli (noto sotto l’acronimo di APP) nei due trimestri successivi, ma nei giorni scorsi la Lagarde ha chiarito che tale potenziamento potrebbe in realtà non durare così a lungo, riducendo ulteriormente il ritmo dell’espansione quantitativa nell’Eurozona.  La reazione iniziale dei mercati azionari è stata fortemente negativa, anche in concomitanza di notizie negative sul fronte di guerra, ma la volatilità delle borse non è di per sé sufficiente a modificare l’orientamento della banca centrale. 

Abbiamo vissuto anni di mercati “drogati” da forti espansioni monetarie, si può dire che l’unica inflazione che abbiamo avuto fino a metà 2021 sia stata nel mercato delle attività finanziarie. Le banche centrali devono ovviamente salvaguardare la stabilità finanziaria, ma definire chiaramente cosa si intende con questo termine non è banale.

La BCE dovrebbe sicuramente intervenire se mancasse la liquidità o qualora si interrompessero i meccanismi fondamentali di funzionamento del sistema finanziario, ma non per stabilizzare semplici fluttuazioni giornaliere.  Viceversa, le decisioni delle banche centrali necessitano di essere guidate dai dati macroeconomici e dalle previsioni sugli andamenti futuri di prezzi, attività economica ed occupazione.

Fino a qualche mese fa, l’intenzione era di attendere il 2023 per una normalizzazione dei tassi a breve nell’Eurozona, ma i dati attuali sull’inflazione non consentono di escludere che si debba anticipare l’intervento all’ultimo trimestre del 2022. Dipenderà da come evolverà il conflitto russo – ucraino e dagli effetti cumulativi delle azioni da questo attivate, come sanzioni e restrizioni agli scambi commerciali e alle transazioni energetiche e finanziare. Di sicuro, inizia ad esserci evidenza che le previsioni formulate sull’inflazione nell’Eurozona, non solo negli USA, un anno fa erano decisamente sbagliate e sottostimavano, ben prima dell’avviarsi del conflitto, i trend in atto.

È noto che il primo, irrinunciabile, obiettivo della BCE è di mantenere l’inflazione sotto controllo. Il dilemma che affronta in queste settimane è relativo al fatto che, in assenza di una riduzione degli stimoli, questo obiettivo non potrebbe essere garantito. Tuttavia, è necessaria prudenza e gradualità, perché esistono anche rischi di effetti negativi sull’economia europea indotti dal conflitto in Ucraina, dalle tensioni geopolitiche e dal generalizzato calo di fiducia tra gli agenti, tutti fattori che aumentano i rischi di una riduzione della ripresa economica se non addirittura di un ritorno, per alcuni paesi, in recessione.

Per molto tempo, nell’Eurozona, la politica monetaria è stato l’unico strumento a disposizione. L’adozione del Next Generation EU e la sospensione del Patto di Stabilità e Crescita a seguito della pandemia hanno per fortuna modificato in modo rilevante il quadro, ed oggi la politica fiscale, comune e domestica, ha sicuramente più spazio di azione. Diviene fondamentale coordinare in modo efficace le azioni della Banca Centrale Europea con quella dei singoli governi nazionali e delle istituzioni politiche della UE, per raggiungere il mix più adeguato di interventi fiscali e monetari, senza tralasciare una riflessione, ormai difficilmente rinviabile, circa lo sviluppo di una difesa comune nella UE per ridurne la eccessiva dipendenza da Nato e USA. 

Il quadro complessivo rimane fortemente dipendente dagli sviluppi del conflitto in Ucraina. Qualora questo terminasse a breve, è plausibile che i fattori di rischio downside all’economia possano rapidamente essere riassorbiti, conducendo la BCE a valutare con attenzione subito dopo l’estate, la cessazione degli stimoli e l’avvio della normalizzazione della politica monetaria anche sul fronte dei tassi di interesse.

Un prolungato scenario di guerra consiglia invece di non attivare interventi che potrebbero rendere inevitabile una nuova forte contrazione dell’attività economica nell’Eurozona, a distanza di pochi mesi dall’uscita dalla più grave recessione mondiale degli ultimi due secoli.