Proposta come un'operazione "amichevole", l'Offerta pubblica di scambio che Banca Intesa ha lanciato su Ubi presenta molte incognite. Che qui vengono analizzate una per una. Con una certezza: Intesa offre carta, ma incassa un'ingente liquidità
Il proposito di Intesa SanPaolo di acquisire Ubi rappresenta (se realizzato) una tappa importante nel riassetto del nostro sistema bancario. Intesa è il secondo gruppo italiano (a fine 2019, totale attivo di 816 mld), UBI il quarto (127 mld).
Gli aspetti essenziali dell’operazione sono soprattutto questi. Intesa offre 10 azioni di nuova emissione in cambio di 17 azioni UBI, con un premio del 27-28% se calcolato rispetto alla chiusura del giorno pre-offerta, premio molto più alto se si considera un periodo più lungo.
L’OPS (Offerta Pubblica di Scambio) punta ad ottenere almeno 2/3 del capitale di UBI; l’obiettivo minimo di Intesa (che intende procedere al delisting e alla successiva incorporazione) è arrivare a controllare il 50% +1 azione. Considerati i tempi necessari per le autorizzazioni e altri adempimenti, l’offerta partirà solo a fine giugno.
Intesa ritiene che l’aggregazione di UBI possa a regime determinare sinergie annue per 730 mln (prima delle tasse), di cui 510 da minori costi e 220 da maggiori ricavi. Oltre il 90% di queste sinergie dovrebbe essere acquisito già entro il 2023. Limitati vengono giudicati i rischi di esecuzione dell’operazione. È previsto un aumento della copertura dei crediti deteriorati di UBI (ora al 39% rispetto al 54% di Intesa). Intesa si attende che il suo risultato netto (4,2 mld nel 2019) superi i 6 mld nel 2022.
Del progetto fanno parte gli accordi già definiti con BPER e Unipol. Per superare possibili obiezioni dell’Autorità Antitrust è previsto che entro fine 2020 BPER acquisti da Intesa “allargata” 400-500 sportelli (prevalentemente concentrati in Lombardia, Marche e Puglia), con un esborso di circa un miliardo. Unipol (maggiore azionista di BPER), invece, rileverà per un importo imprecisato ma non trascurabile le compagnie assicurative partecipate da UBI Banca.
L’offerta è formalmente ostile (perché non concordata) ma Intesa si sforza di presentarla come amichevole, arrivando a prospettare al management di UBI una possibile integrazione nel nuovo gruppo. Il successo del progetto, però, non solo farebbe decadere UBI dal ruolo di polo aggregante recentemente dimostrato (Banca delle Marche, Banca dell’Etruria, Cassa di Risparmio di Chieti) ma ne determinerebbe anche lo smembramento tra tre nuovi proprietari.
Esprimersi sul rapporto di scambio è difficile. Si può però osservare che il PTB (Price To Book value) di Intesa prima dell’annuncio era pari a 0,75-0,80%, quasi il doppio di quello di UBI. I principali azionisti di UBI, raggruppati in tre diversi patti, hanno per ora respinto la proposta dichiarandola insufficiente, una risposta scontata per mantenere aperto uno spazio negoziale sul prezzo, eventualità che altrettanto ovviamente Intesa (per ora) esclude.
In Intesa “allargata” i tre patti sono destinati all’irrilevanza (2-3% complessivamente). L’esito dell’offerta dipenderà soprattutto dagli investitori istituzionali cui è riferibile oltre il 70% del capitale di UBI e la cui decisione è guidata da considerazioni prevalentemente finanziarie (plusvalenza immediata e dividendi futuri).
Chi resta fuori dal risiko
Come valutare l’iniziativa di Intesa? La prima reazione è stata di sorpresa. La maggior parte dei commentatori, infatti, ha immaginato a lungo operazioni finalizzate soprattutto alla sistemazione delle numerose situazioni di difficoltà. Di questo insieme, oltre a piccole banche fanno parte anche gruppi di significativa dimensione, da Carige a Monte dei Paschi.
Per questi due gruppi è necessario trovare in tempi relativamente brevi operatori disposti a rilevare le quote del capitale attualmente detenute, rispettivamente, dal FITD (Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi) e dal Tesoro (c’è un impegno con l’Europa ad uscire entro il 2021).
L’operazione Intesa – UBI, invece, da un lato ha al centro due banche in buona condizione, dall’altro lato rende indisponibili al risiko nazionale tre possibili soggetti aggreganti (oltre a Intesa e UBI, anche BPER). Se da un lato le ipotesi di sviluppo di un gruppo bancario non possono essere condizionate dalla necessità di risolvere situazioni di crisi, dall’altro lato è però evidente che per il superamento di queste situazioni si dovrà ora guardare soprattutto alla disponibilità (attualmente non troppo intensa) degli operatori della finanza internazionale.
È opportuno ricordare che per evitare il degenerare di queste situazioni (e i conseguenti rischi sistemici) alle banche italiane è richiesto un rilevante impegno (a livello sistema 12 mld nell’ultimo quinquennio secondo Patuelli; per la sola Intesa un miliardo circa (ante imposta) nel solo biennio 2018-19).
Intesa sempre più domestica
Una seconda riflessione (meno frequente) è necessariamente questa: è questa acquisizione la mossa giusta per rafforzare Intesa? Intesa è un gigante bancario (oltre 800 mld di attivo) focalizzato prevalentemente sul mercato retail domestico. Se si sfoglia il suo bilancio, infatti, si rileva che nel biennio 2018-19 la CIB (Corporate e Investment Banking) e l’ISB (International Subsidiary Banks) hanno contribuito al totale dei proventi netti, rispettivamente, per il 22,5% e l’11%. Entrambe queste percentuali sono molto lontane dal 48% della Banca dei Territori la cui attività è concentrata sul mercato retail domestico, cioè privati con attività finanziarie fino a 100mila euro, PMI (aziende con fatturato di gruppo non superiore a 350 milioni), enti no-profit.
L’acquisizione di UBI accentua questo profilo, legando ancor più le prospettive del gruppo alle vicende economiche del nostro Paese, che si trova sull’orlo della terza recessione in dodici anni. I gruppi europei che meglio hanno attraversato questi ultimi dieci anni (BNPP, Santander, BBVA, etc) sono tutti caratterizzati da un portafoglio di attività fortemente diversificato, anche sotto il profilo geografico.
A “difesa” di Intesa si può concordare che sulla carta la similitudine tra le due banche riduce i rischi di realizzazione. Inoltre è anche vero che il trend delle operazioni cross-border in Europa è fermo da tempo. L’ultima operazione cross-border di un certo rilievo risale al 2015 (acquisizione dell’inglese TSB da parte del gruppo spagnolo Banco de Sabadell). Se ci si restringe alla sola eurozona, per trovare operazioni transfrontaliere superiori a €500 mln bisogna tornare al 2011.
Andrea Enria, dallo scorso anno a capo della Vigilanza europea, ha manifestato la volontà di intervenire sugli snodi normativi che possono aver contribuito a determinare questo arresto. Orientamento simile anche da altri esponenti della Bce. Per adesso, però, siamo ancora nella fase delle dichiarazioni.
Carta contro liquidità
L’esame di questa operazione, infine, conferma l’abilità di Intesa nel costruire progetti di acquisizione. Quando accettò di procedere all’incorporazione delle due banche venete sull’orlo del fallimento (Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza), Intesa ottenne, oltre ad una adeguata dote finanziaria per coprire i prevedibili costi dell’operazione, anche una serie di clausole contrattuali per fronteggiare eventuali “sorprese”. È questo il caso del rimborso per i cosiddetti crediti «high risk», prestiti rilevati inizialmente in bonis ma poi declassati a deteriorati (740 milioni a fine 2018).
Per quanto riguarda il progetto recente, l’aspetto da rilevare è che se agli azionisti UBI si prospetta uno scambio “carta contro carta”, per Intesa l’operazione determina l’incasso di un rilevante ammontare di liquidità (un miliardo di euro circa da BPER e un importo non trascurabile da Unipol). Per una parte, quindi, l’acquisizione di UBI si traduce per Intesa in un aumento di capitale a pagamento.