NUOVA FINANZA
Transition bond pronti al decollo

Le obbligazioni che raccolgono il denaro con l’intento di aiutare le industrie più lontane dagli obiettivi della decarbonizzazione a raggiungerli stanno incontrando il favore del mercato

La finanza cerca sempre nuovi beniamini in cui far confluire gli investimenti. Potrebbe essere venuta l’ora dei transition bond, le obbligazioni che raccolgono il denaro con l’intento di aiutare le industrie più lontane dagli obiettivi della decarbonizzazione a raggiungerli.

L’etichetta non è nuova e sta cercando da anni il suo momento fortunato. Perché potrebbe essere questo?

Man mano che i vincoli degli investimenti ESG, seguiti come un mantra negli ultimi anni, si rivelano per molte banche troppo stringenti, tagliando fuori dalla potenziale clientela grandi gruppi industriali che oggi, nel nuovo contesto economico e geopolitico, presentano invece ottimi bilanci e prospettive di crescita, come le compagnie petrolifere, la soluzione del transition bond è il coniglio dal cappello.

Poco importa che siano grandi produttori di CO2, che il loro core business non risponda ai criteri ESG o alla tassonomia dettata dalla Ue, perché non dare credito a quei giganti industriali per aiutarli a raggiungere gli obiettivi della decarbonizzazione, cioè diventare più “green”?

L’idea si è rapidamente diffusa tra i gruppi finanziari, da Axa a Barclays, che ne è diventata un portabandiera. Un transition bond emesso da Snam nel 2023 è andato a ruba e adesso tocca al Giappone tirare la volata.

Dopo l’avvio di emissioni per la transizione fatta da molte imprese locali, ora è lo Stato giapponese a emettere un bond (per oltre 10 miliardi di dollari) che ha l’obiettivo di ridurre le emissioni nelle aeree del paese che attualmente sono le più inquinate. Servirà a finanziare il piano governativo per la Green Transformation Strategy, e include quindi che il flusso di denaro raccolto possa per esempio andare all’industria dell’auto per sviluppare l’ibrido, non necessariamente il solo motore elettrico.

Includere questo tipo di destinatari appare, ai puristi anti-CO2, come troppo ambigua. Destinata a distorcere il mercato della vera transizione verde. Utilizzata per includere industrie super-inquinatrici come il cemento e l’acciaio, o centrali a carbone, che andrebbero solo chiuse e non tenute in vita. Ma è una linea di pensiero che è sempre meno rocciosa, come dimostra, per esempio, la pressione montante affinché la Bei, braccio finanziario della Ue, apra all’investimento nell’industria degli armamenti.

Eppure l’esempio giapponese ha aiutato a mettere a fuoco quello che manca a questo tipo di finanziamenti: la chiarezza di linee guida che dia trasparenza non solo a chi emette il bond quanto ai beneficiari, ma anche a quali standard questi ultimi devono attenersi.

In questo modo i transition bond potrebbero superare l’impasse che oggi sta vivendo la finanza sulle emissioni propriamente green, con i risparmiatori sempre più tiepidi e i grandi gestori dei fondi con l’esigenza di diversificare il menu senza essere accusati di greenwashing.

P.Pi.

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