Sgominare l'evasione è anche un affare internazionale. Ecco l'ultimo Rapporto dell’EU Tax Observatory. Un bilancio negativo per la tassa minima sulle multinazionali e per l'intoccabilità dei super-ricchi. Ma ecco che cosa si potrebbe fare
I miliardari globali se la passano bene non solo perché sono straricchi, ma perché vivono in una sorta di no-tax area senza identità geografica né confini né un’autorità. Sono semplicemente liberi di diventare sempre più ricchi senza pagare il dovuto al fisco.
È uno dei risultati dell’ultimo bilancio sullo stato della lotta all’evasione internazionale contenuto nel recente Rapporto dell’EU Tax Observatory: i miliardari globali hanno aliquote fiscali effettive pari allo 0%-0,5% del loro reddito, questo soprattutto per via dell’utilizzo di società di comodo con cui sfuggono ai radar fiscali.
L’Osservatorio, ente di ricerca sulla fiscalità internazionale nato del 2021, arriva ai suoi risultati mobilitando in tutto il mondo 100 ricercatori e avvalendosi degli accordi che consentono gli scambi di informazioni bancarie tra più di 100 paesi.
È per questo che il suo allarme dovrebbe suonare nelle orecchie di tutti i governi, visto che lo studio non vuole solo alzare il velo sull’evasione in senso stretto, ma anche su quelle pratiche non illegali ma al limite dell’illegalità in quanto semplicemente elusive.
Un allarme che mette sul banco degli imputati le politiche internazionali dell’ultimo decennio, quelle imposte dalla globalizzazione, che hanno aumentato i canali attraverso i quali i redditi sono sfuggiti ai controlli. Politiche che in definitiva hanno aumentato le disuguaglianze, reso più vergognose le ingiustizie e crescente la rabbia sociale.
Non tutto, tra i provvedimenti mirati a inseguire redditi e profitti in fuga, è stato fallimentare. Per esempio, l’evasione fiscale off-shore è diminuita di tre volte negli ultimi dieci anni proprio grazie all’incrocio di informazioni tra banche. Prima del 2013, nei paradisi fiscali era depositata una ricchezza finanziaria pari al 10 per cento del Pil globale; oggi la quota è sempre il 10 per cento, ma la quota di chi non paga le tasse si è ridotta a un quarto.
Veri ossi duri sono invece le multinazionali. I loro profitti, protetti nei paradisi fiscali, restano una cifra molto alta: un trilione di dollari, stima l’Osservatorio, vale a dire il 35 per cento dei profitti registrati all’estero da tutte le multinazionali. E per il 40 per cento ne sono responsabili le corporation americane. Una beffa rispetto ai tentativi fatti per contrastare il fenomeno: la Base erosion and profit shifting dell’Ocse nel 2015 e la riduzione delle aliquote della corporate tax dal 35 al 21% per le proprie multinazionali, decisa nel 2015 negli Usa. Entrambe non hanno lasciato segno.
Poi c’è il flop dei flop. Il fallimento della global minimum tax, quella decisa nel 2021 da 140 paesi per tassare con una aliquota minima del 15% i profitti delle multinazionali globali.
Annacquata al momento della messa in pratica, la minimum tax è stata la classica montagna che ha prodotto un topolino: non solo gli incassi attesi si sono dimezzati, ma ha creato incentivi per spingere le multinazionali verso paesi a basso regime fiscale, e per spingere i paradisi fiscali a tenersi sotto quel 15% .
Il fatto che la competizione fiscale tra paesi sia aumentata non è sintomo di una salutare concorrenza, osservano gli autori del rapporto: ridurre la base imponibile del paese da cui i contribuenti fuggono per andare in un altro con tasse inferiori non è a somma zero, ma negativa. Non solo. Poiché a fuggire sono soprattutto i più ricchi, questo provoca una minore progressività del sistema fiscale del paese da cui fuggono, aumentando le disuguaglianze nella collettività.
E torniamo ai miliardari che, grazie alla possibilità data loro di usare delle holding, riescono a evitare le tasse e la cui ricchezza cresce in media del 7 per cento l’anno dal 1995, al netto dell’inflazione. Che fare con loro?
Recentemente Guido Alfani, professore di Storia economica alla Bocconi, ha ricordato sul New York Times come i ricchi abbiano tradito il ruolo che hanno sempre avuto nella storia delle comunità occidentali: quello di supportare le società a cui appartenevano in momenti di crisi come guerre, carestie, pestilenze. Questa funzione sociale, che i ricchi riconoscevano e che li faceva attingere alle proprie riserve di ricchezza e fare la propria parte (nelle monarchie assolute ma anche nella Repubblica veneziana, fino alla sottoscrizione dei prestiti patriottici con la Guerre mondiali), ora è stata completamente abbandonata. Loro unica preoccupazione e impegno, quelli di schermare la ricchezza crescente.
Il rapporto dell’Osservatorio nota che l’evasione fiscale non è una legge di natura, ma una scelta politica. Agire quindi si può. La proposta messa sul tappeto è quella di una imposta minima globale sui miliardari. Una tassa del 2% sul loro reddito.
La stima delle entrate potenziali, tassando meno di tremila ricconi, sarebbe di 250 miliardi di dollari l’anno. Se funzionasse bene, senza scappatoie, anche l’imposta minima globale sulle multinazionali, potrebbe generare altrettanto.
Esattamente i 500 miliardi di introiti pubblici aggiuntivi che servono ai paesi in via di sviluppo (ne ha parlato l’ultima Cop sul clima a Dubai) per affrontare le sfide del cambiamento climatico. Ma che cosa si aspetta ancora?