L’Open Innovation è la strategia che si basa sulla decisione di cercare fuori dei confini organizzativi le idee e le tecnologie già disponibili, per accelerare, rendere meno costosi e più produttivi i progetti di innovazione strategici. Ecco come si sta sviluppando
Gli ultimi dati dell’Osservatorio sulla Digital Innovation registrano la crescita dell’Open Innovation: la adotta già l’83% delle grandi imprese (il 45% possiede addirittura un budget dedicato) e il 52% collabora con delle startup mentre, per quanto riguarda le PMI, la percentuale si attesta all’11%. In particolare, il 41% delle imprese ha creato un reparto o un ruolo destinato alla gestione dell’innovazione, il 31% ha team di progetto dedicati ad essa, mentre il 9% ha instaurato un comitato di innovazione interfunzionale.
Le prassi con cui le aziende si interfacciano all’Open Innovation sono diverse: le collaborazioni con Università e Centri di Ricerca sono la modalità ancora preferita con il 67%, le attività di scouting e intelligence di startup sono il 52% e anche gli Hackathon con il 36% sono abbastanza utilizzati.
Analizziamo questi dati con Benedetto Buono, founding partner della boutique di consulenza strategico-relazionale Buono & Partners, Direttore del Professional Program in Business Networking della POLIMI Graduate School of Management e co-autore, con Federico Frattini, Dean della POLIMI Graduate School of Management, del libro “Innovationship – L’innovazione guidata dal capitale relazionale” edito da Egea.
L’Open Innovation è diventato uno dei temi più rilevanti degli ultimi anni ed è sempre più al centro delle scelte strategiche delle aziende. Ci spiega in modo molto semplice in cosa consiste?
«Open Innovation vuol dire innovare aprendosi al mondo esterno all’organizzazione. Per essere più precisi, l’Open Innovation è quella strategia di innovazione che si basa sulla decisione di ricercare al di fuori dei confini organizzativi le idee e le tecnologie già disponibili, da utilizzare per accelerare, rendere meno costosi, più produttivi e meno rischiosi i progetti di innovazione strategici».
Nel suo libro, tra i numerosi casi italiani e internazionali riportati, vi è quello molto famoso delle connessioni sviluppate dal centro di ricerca Isinnova, tra cui contatti pregressi con ospedali, giornalisti e un direttore scientifico di musei, per creare una maschera respiratoria di emergenza durante la pandemia COVID-19. Come può il capitale relazionale guidare l’innovazione?
«Poiché il capitale relazionale è costituito dai legami sociali che interconnettono tanto gli individui quanto le organizzazioni, il che produce sia vantaggi individuali che collettivi ed essendo l’innovazione, soprattutto quando condotta in modo aperto, un altro processo di natura fondamentalmente sociale, si evince facilmente ed anche intuitivamente quanto i due fenomeni siano profondamente collegati. Il capitale relazionale dei protagonisti di un progetto di innovazione interagisce direttamente e indirettamente con il capitale finanziario e tecnologico a disposizione di ogni organizzazione per generare output innovativi di maggior valore rispetto a quanto si potrebbe fare restando isolati all’interno dei propri confini. Di fatto e in altre parole, il capitale relazionale guida letteralmente l’innovazione – come dichiarato sin dal sottotitolo del nostro libro – impattandone e modellandone le tre fasi principali: la costruzione, l’attivazione e l’utilizzo del capitale relazionale a fini strategici e innovativi».
Gli ultimi dati dell’Osservatorio sulla Digital Innovation confermano una crescita da parte delle aziende di adottare approcci collaborativi per stimolare l’innovazione anche attraverso attori esterni: tant’è che circa il 32% di loro aumenterà il proprio budget per l’innovazione. A suo avviso, da dove occorre partire? E, soprattutto, esiste un metodo?
«Occorre innanzitutto partire da un’analisi interna dello stato “innovativo” dell’azienda, delle risorse disponibili e di quelle ancora da acquisire e da un setting chiaro e condiviso degli obiettivi strategici da raggiungere attraverso l’innovazione, riflettendo il tutto nel piano di sviluppo strategico aziendale. Parallelamente a ciò, è necessario investire costantemente nella formazione, leva principale mediante la quale restare aggiornati rispetto agli ultimi trend di business e di scenario e dotare delle competenze necessarie a competere il proprio capitale umano. Di metodi ne esistono molteplici e anche il nostro libro ne suggerisce diversi. Vi sono poi sul mercato innumerevoli soggetti specializzati nell’innovazione aperta, che potranno supportare al meglio l’azienda nel raggiungimento degli obiettivi strategici precedentemente fissati».
Cosa c’è da fare in Italia per favorire lo sviluppo di un capitale relazionale per creare nuove occasioni di creatività e sviluppo?
«In Italia è necessario strutturarsi e acquisire un mindset strategico, cioè basato su obiettivi di lungo termine e competenze adatte che, laddove non disponibili, è necessario acquisire sul mercato, managerializzando la gestione delle relazioni di business, non lasciandole all’improvvisazione o al lavoro di pochi e investendo sulla formazione continua. La chiave, tra le altre, risiede nella sistematizzazione, conservazione e condivisione della conoscenza aziendale – che trova il suo culmine concettuale proprio nella capacità di innovare – capacità che ha reso celebre nel mondo l’imprenditoria nazionale. Le relazioni devono essere interpretate sempre più come il collante principale di tutti questi elementi: approcciando il capitale relazionale in tal modo e gestendolo al pari del capitale finanziario e di quello tecnologico, le aziende italiane potranno continuare a competere e avere successo a livello internazionale anche in futuro».