Una polemica da oltreoceano sulle previsioni economiche che non si realizzano e sugli eventi economici che non si prevedono si interroga sulla attualità degli economisti mainstream
Gli economisti mainstream – quelli che lavorano per le grandi istituzioni o sono advisor di prestigio – non riescono più ad azzeccare una previsione? Il tema è stato rilanciato da un economista che di questa polemica ha fatto da tempo il suo cavallo di battaglia: James K. Galbraight, figlio di John Kenneth (il consigliere economico di JFK e di Clinton), sostenitore della MMT, critico del libero mercato e censore infaticabile dei colleghi per i loro errori di valutazione.
Questa volta, l’occasione per punzecchiarli deriva da due eventi: primo, i sintomi di discesa dell’inflazione (negli Usa dal picco del 9% al 3%), che la maggioranza degli economisti prevedeva ostinata su alti livelli dopo che all’inizio era stata considerata temporanea e quindi combattuta in ritardo; il secondo evento, la percezione sempre più fondata che la recessione che doveva travolgere il mondo sia un pericolo sventato.
Il sistema ha dimostrato una resistenza su cui nessuno avrebbe scommesso, a partire proprio da chi per professione dovrebbe essere in grado di farlo. Un peccato di miopia di cui gli economisti (o meglio: quelli del mainstream) non sono nuovi. Se ne sono macchiati in modo indelebile, non vedendo arrivare la Grande crisi finanziaria e continuano a farlo, è la critica. E Galbraight, affiancato da un altro economista dalla penna acuminata, Paul Krugman, enumera alcuni errori.
Per esempio la predizione della prestigiosa Brookings Institution, supportata in questo da Jason Furman (professore a Harvard ed ex capo economista con Obama), che ha sostenuto che per ritornare all’obiettivo dell’inflazione al 2% voluto dalla Fed (stesso obiettivo della Bce) sarebbero stati necessari due anni di forte disoccupazione (per gli Usa al 6,5%), insomma lagrime e sangue. Ma la regola si è dimostrata sballata, perché la disoccupazione non c’è stata e l’inflazione ha iniziato lo stesso a scendere.
Adesso, anche se quel target del 2% non è ancora acciuffato, i mercati hanno cominciato a festeggiare con la ripresa degli investimenti in Borsa e con la discesa del dollaro. E che cosa insinua Galbraight? Addirittura che economisti di fama preferiscano i tassi alti dell’orizzonte inflazionario per far contente la banche e guadagnarsi così il favore dei banchieri.
Anche se Galbraight vuole interpretare il ruolo dell’underdog, peraltro non essendolo, non è il solo, di questi tempi, a sottolineare gli errori di chi possiede le chiavi decisionali in economia.
Lo fa, per esempio, l’Fmi nel recente World economic Outlook, notando quasi con disappunto che “le decisioni di politica monetaria in molte economie emergenti sono migliorate negli ultimi 15 anni al punto da servire a consolidare la stabilità generale”. Sottinteso: meglio di quelle occidentali.
Come ha sostenuto un paper del Peterson Institute of international economics, le banche centrali delle economie emergenti hanno iniziato prima la stretta dei tassi, imboccando un percorso meno traumatico che avrebbe evitato a banche come la Silicon Valley Bank o Credit Suisse di fallire. Oltretutto, lo hanno fatto con una comunicazione chiara e senza usare modelli economici magari di moda, ma fallaci: un modo per parlare a nuora perché suocera – Fed, Bce, Boe… – intenda.
Tutte queste potrebbero sembrare polemiche oziose. Duelli tra scuole economiche, dibattiti di nicchia. Eppure sono forse un aspetto di un disorientamento più ampio e generalizzato, dovuto all’incertezza di questi tempi. I “modelli” sembrano non funzionare più, né in economia né in politica. E le percezioni spesso valgono più delle cifre trasmesse dalla realtà.
È quello che sottolinea Krugman riflettendo sulla divaricazione tra dati dell’economia negli Usa (prezzi al consumo fermi a ottobre, disoccupazione ai minimi) e umore dei cittadini. Mentre l’ultimo report di Goldman Sachs sul Macro Outlook 2024 si intitola “Il peggio è alla spalle”, cioè niente recessione e tassi ormai maturi per tornare giù dal picco raggiunto (anche se non prima della seconda metà del 2024). Eppure i consumatori americani continuano ad avere un opinione molto negativa sulla Bidenomics.
Spiegazione possibile? Che non bisogna guardare a ciò che i consumatori dicono, ma a quello che fanno. Il “sentiment” dei consumatori mostra essere in fase di umore nero, addirittura simile a quello avuto dopo la Grande crisi? Ebbene sì: allora l’indice dell’umore era crollato di 23 punti percentuali, adesso di 22 punti.
Ma la voglia di spendere che hanno è ben diversa. Dopo la Grande crisi i consumi pro capite si sono ridotti dell’1%, mentre adesso sono aumentati del 9%. Perché allora i consumatori vedono nero sull’economia? La risposta è semplice: la loro percezione non riflette davvero i fondamentali economici, ma obbedisce piuttosto alla partigianeria politica. Inoltre, per quanto rallentata, l’inflazione ha lasciato comunque sul terreno prezzi più alti, e questo resta un fattore negativo per i consumatori.
Che riflesso ha tutto questo sul mestiere dell’economista? È ancora da vedere, ma intanto ci riporta a Galbraight, il quale sostiene che la generazione degli economisti mainstream, quelli che si sono formati ed esercitati negli anni ’70, ragazzi prodigio come Larry Summers e lo stesso Krugman, ora sono solo “tired old men”: vecchi, come le teorie che utilizzano nelle loro analisi. Che il mainstream abbia bisogno di un cambio della guardia per questi tempi nuovi e diversi dell’economia? Il dibattito è aperto.