Il tema delle retrocessioni ai consulenti finanziari è stato affrontato nell’ambito del processo di modifica della direttiva MiFID nella sua futura terza versione. La bozza iniziale ne prevedeva l’abolizione, ma l'ipotesi non ha retto alle contestazioni. Ecco alcune riflessioni, con un occhio alla difesa del cliente
Il concetto di consulenza ha in generale un limite strutturale nella sua definizione. Esso risulta non riconducibile ad una descrizione condivisa né ad un riferimento normativo che ne inquadri requisiti e caratteristiche. Si tratta di una terminologia liberamente utilizzabile nel mondo professionale, non sempre indicativa di una effettiva operatività oppure del conseguimento di una qualifica identificata da un percorso o da una verifica dei requisiti.
La medesima difficoltà si rinviene nel più ristretto ambito della intermediazione finanziaria, laddove dal 2016 la dizione in oggetto inquadra sia i consulenti “non indipendenti”, precedentemente denominati promotori, sia i consulenti indipendenti “fee only”, sia le società di consulenza che possono avvalersi nel loro operato dei primi.
Una denominazione pertanto non armonizzata che può generare incomprensioni da parte dell’utente finale dei servizi offerti e cioè del risparmiatore-investitore (se si tratta di operatori nel settore del mercato mobiliare) o del debitore (se si tratta di operatori del mercato del credito qui solo accennati).
Questa cum-fusione (in senso anche giuridico) è conseguenza anche del percorso normativo che ha caratterizzato l’evoluzione della figura negli ultimi 30 anni, originando da una disciplina allora superata ma più chiara.
Infatti, fino al 1990, era agevole distinguere gli agenti di cambio (broker con divieto di negoziazione in proprio) dalle commissionarie di borsa (dealer con licenza di negoziazione in proprio e per conto terzi); gli attuali CF erano allora agenti delle “società di distribuzione dei servizi finanziari”. Con la Legge 2.1.1991, istituite le SIM, la consulenza finanziaria diviene un servizio di investimento autorizzato di cui il distributore era il sollecitatore, per poi eseguirlo in proprio o tramite terzi.
Con la MiFID 1 (2007) la consulenza diventa servizio accessorio, perdendo visibilità, ma maturando una sua identità generata dall’attività sul mercato. Dopo quasi dieci anni di incertezza, la MiFID 2 (2018) riporta la consulenza tra i servizi di investimento e ne individua la tripartizione già descritta, benché mischiando le attività tied/untied (non indipendenti/indipendenti oppure di dealer/broker). Infine, in termini di operatività, i consulenti tied sovrastavano nel numero gli untied e le scarse società SCF.
La situazione si è evoluta negli ultimi 5 anni con una diminuzione lieve ma tendenziale del numero dei tied (comunque circa 55.000), una diminuzione più consistente dei tied con mandato e quindi operativi, (circa 34.000), circa 700 untied (erano 94 nel 2018) e oltre 80 SCF (erano 18). L’asimmetria rimane, ma i trend sono in controtendenza fra loro. Restano l’utilizzo della medesima parola per inquadrare tutti i soggetti, cospicui passaggi di tied agli untied, la crescita dell’età media dei soggetti ben oltre la media nella UE, e la riduzione dei nuovi ingressi rispetto al passato.
Ho più volte sottoposto all’attenzione la possibilità (nel linguaggio anglosassone) di distinguere una generica attività di consultancy da quella di un advisory più densa di servizi dedicati e personalizzati. In una logica industriale (essendo peraltro il settore in oggetto una vera e propria industry inquadrata da numerose normative), si distingue fra una produzione di servizi standardizzati (di cui la norma impone di verificare l’utilità – appropriatezza o adeguatezza – per l’utente retail e persona fisica) e la personalizzazione del rapporto e della singola operazione conseguente alla attività di consulenza.
Negli ultimi tempi, numerosi soggetti inquadrati quali sim di consulenza hanno preferito modificare la loro natura giuridica in “società di consulenza finanziaria”, qualifica estranea al mondo SIM, per non doversi sottoporre a requisiti di patrimonio non conformi all’assenza di rischio di posizione e campi di vigilanza estranei alla loro effettiva attività.
L’attività di consulenza finanziaria indipendente non presenta rischi di conflitto d’interessi in ragione dell’assenza di un rapporto commerciale tra le società prodotto e i consulenti (individui o società), una volta distinta con chiarezza l’indipendenza dall’attività multimandato, giuridicamente possibile solo nel campo assicurativo (peraltro ormai denso di strumenti IBIP e PRIIPS). Il consulente indipendente è remunerato dal cliente e non dalle società prodotto; nel settore finanziario tale condizione è regolata dal regime delle retrocessioni, il processo contabile attraverso il quale le società di gestione riconoscono a quelle di distribuzione una parte (invero consistente) dei ricavi conseguiti dall’investitore. Nel settore del credito esiste invece una separazione giuridica individuata fin dal 2010 dalla normativa che separa l’attività degli agenti finanziari (remunerata dai mandanti) e quella dei mediatori creditizi pagata dai loro clienti.
Questo ruolo non è previsto nel campo della finanza mobiliare, benché i consulenti untied ne riproducano in buona parte il profilo contrattuale e la fonte dei ricavi.
Il tema delle retrocessioni è stato affrontato anche nell’ambito del processo di modifica della direttiva MiFID nella sua futura terza versione. La bozza iniziale ne prevedeva l’abolizione, ma tale ipotesi non ha retto rispetto alle posizioni assunte dai diversi protagonisti del mercato, incontrando resistenze concettuali e funzionali da parte delle banche e, soprattutto, dagli intermediari abilitati alla sollecitazione del pubblico risparmio. Il fondamento delle diverse posizioni ruota attorno alla opportunità o meno di retrocedere al cliente quanto ricevuto dalle società prodotto. L’ipotesi del divieto appare superata, ma sarà comunque ancora ridiscussa prima della versione definitiva della Direttiva MiFID III.
Diversa, ma sempre inerente al concetto di indipendenza, è invece la funzione degli inducements, la possibilità che le società prodotto offrano forme di remunerazione anche non monetaria in grado di attrarre il comportamento dei distributori per la preferenza verso i prodotti delle società che operano con tale strumento. In quest’ambito la partita è molto complessa ed appare risolvibile attraverso la previsione (già prevista nella MiFID II) che gli inducements e le retrocessioni possano restare in vigore (nel campo della consulenza tied) laddove il loro sostenimento a carico del cliente finale sia associato ad un effettivo vantaggiato (almeno potenziale) per la redditività degli investimenti in accordo con la policy di gestione attivata dalle società, la soddisfazione delle esigenze della clientela e una rendicontazione che dimostri nei fatti un risultato più vantaggioso per il cliente.
Esiste anche un più semplice problema legato ai costi del lavoro di intermediazione sostenuti dal cliente rispetto al prodotto e/o al servizio oggetto dei contratti. Analisi statistiche prodotte anche da soggetti indipendenti (ricerche universitarie, società di consulenza autonome e associazioni nazionali ed internazionali) dimostrano un onere mediamente superiore nel caso italiano rispetto alla media UE, ma soprattutto una mancata correlazione con i rendimenti offerti su un orizzonte temporale adeguato (dai 3 ai 5 anni abitualmente).
La nozione di TER (total expenses ratio) è l’indicatore più idoneo una volta risolto il tema del ricomprendere o meno l’impatto degli oneri fiscali che fungono da cuneo tra i ricavi degli intermediari di qualsiasi natura e i costi sostenuti dai clienti. È invece ancora da risolvere il dibattito su quali possano essere i prodotti più o meno costosi. La tradizione del mercato si basa su una scala cash-bond-stock (prodotti monetari, obbligazionari e azionari oppure strutturati). Ho spesso contestato tale approccio evidenziando come, all’interno di queste macro-classi, siano possibili soluzioni di gestione più o meno onerose per effetto dei costi di ricerca, negoziazione e bilanciamento, indipendentemente dalla natura di ciascuna asset class.
Lo sviluppo di gestioni attive e passive e la crescita del peso degli ETF rispetto ai fondi comuni ha ulteriormente inciso sulla effettiva migliore soluzione. Peraltro, all’interno del comparto ETF, la natura passiva e semplificata della gestione non è sempre presente nei prodotti di seconda e terza generazione e propone un sistema di classificazione che deve essere impostato partendo dalla POG (product ovesight governance) attraverso la quale il produttore delinea ex-ante le policy di gestione, i clienti target negativi e positivi e le modalità di negoziazione e management previsti nell’offerta. Un gioiello di bassa qualità non è di per sé migliore e più costoso di un bijoux di alta qualità, laddove la lavorazione e la bravura dell’artista ne definiscano il valore. È il tema legato al “value for money”, attualmente linea guida di molti documenti prodotti dalle ESA comunitarie (EBA-ESMA-EIOPA) in materia di revisione della MiFID.
Per quanto non in assoluto comparabili, le migliori best practice anglosassoni (dove gli incentivi sono vietati) previste dalla normativa RIS “retrocedono” al cliente i margini che ricevono dai gestori e applicano un’unica commissione di consulenza omnicomprensiva a fronte del sistema di numerosi costi e commissioni generalmente adottato in Italia. La frammentazione dei costi è un fattore di trasparenza da un lato, ma consente nei fatti un caricamento complessivo che danneggia l’utente finale in assenza di un price-cap previsto all’origine nella fase precontrattuale.
La fase di rendicontazione potrebbe essere il campo in cui si potrebbe procedere a delle compensazioni qualora il risultato di gestione fosse inferiore ai benchmarks, alle medie di settore o comparto o ad altri parametri indicati in contratto. Come previsto dalla recente normativa SFDR nell’ambito della classificazione ESG, potrebbe essere responsabilità delle società prodotto il classificare ciascun prodotto o servizio in classi dotate ciascuna di livelli di rischi e perimetri di prodotti cui legare attese di rendimenti (sottolineo attese) e cap di prezzo.
In tutte queste considerazioni non è tenuta presente la posizione dei consulenti i cui ricavi sono abitualmente legati ai volumi di vendita e alle management fee (oltre ai rebounds all’interno delle strutture delle reti). Indipendentemente dal loro potere contrattuale, la loro remunerazione sarà oggetto di riconsiderazione soprattutto nella sua distribuzione temporale, attualmente molto spostata verso la fase iniziale del rapporto. È un tema complesso che ho già trattato molto volte in passato, non adatto a questi spazi, ma sul quale mi riprometto di tornare nei prossimi In Filigrana.