La Bce ha dato il via libera al progetto che porterà alla nascita della central bank digital currency in Europa. Negli Usa, invece, il progetto del dollaro digitale è bloccato. E dalla stessa Fed si alzano voci contrarie
Christine Lagarde ha annunciato che la Banca centrale europea si è ormai convinta di procedere alla creazione della versione elettronica della moneta: dopo la fase di studio, si apre ora una fase di preparazione vera e propria del progetto, che durerà due anni.
L’euro digitale, qualcosa di simile al Bitcoin – con la fondamentale differenza che in questo caso non sarebbe un network di partecipanti a gestirlo, ma la banca centrale – non sarebbe il primo della sua specie, visto che diversi paesi, dalla Nigeria a Jamaiaca, hanno già adottato una valuta digitale; sarebbe però sicuramente quello su più larga scala. E, se l’approdo verso la CBDC – la central bank digital currency – fosse una gara, la Bce si giocherebbe il primo posto al traguardo sia con la Bank of England che con la Banca Centrale Cinese, che ci stanno lavorando da tempo.
E la Fed? Come mai non è della partita? Sull’argomento, tra dollaro ed euro e soprattutto tra Fed e Bce, le posizioni non potrebbero essere più lontane. Non perché la Fed sia in ritardo. Piuttosto, perché negli Usa l’idea di una versione elettronica del dollaro è fortemente avversata. Non solo dai politici, ma dagli stessi banchieri che siedono nel board della banca centrale. E questo a solo tre anni dall’avvio del progetto Hamilton, la collaborazione tra Fed e Mit di Boston, varato con la benedizione del presidente Biden per disegnare il dollaro digitale.
Com’è possibile un dibattito tanto arroventato su un tema così tecnico, in netto contrasto con il suo tranquillo procedere in Europa? Si potrebbe pensare che la Bce, non avendo uno Stato e un governo alle spalle, può muoversi liberamente, la Fed, per quanto organo indipendente, no: la sua articolazione a livello di banche federali regionali la rende un organismo collegiale e dunque esposto alla discussione. Ma negli Usa la discussione scatenata sul tema del dollaro digitale mostra anche qualcos’altro che sembra avere a che fare con una guerra di lobby.
Veniamo alle posizioni in campo, che servono a illuminare, oltre ai problemi veri, anche gli interessi nascosti.
Chi magnifica i vantaggi della moneta digitale, sottolinea che si tratta di una forma di denaro che può essere usata per i pagamenti senza costi aggiuntivi (come sono invece quelli delle carte di credito, anche se restano nascosti), soprattutto immediati e a prova di privacy. E che potrebbe aprire l’accesso al mondo finanziario a quanti oggi non usano le banche, perché la moneta digitale verrebbe gestita attraverso carte di credito da una autorità centrale governativa.
Sul fronte opposto si colloca chi ha paura di dare un eccessivo potere alla banca centrale nel controllare le transazioni di denaro, monitorare le abitudini di spesa dei cittadini e addirittura di poter intervenire direttamente su questi portafogli virtuali per mettere in atto scelte di policy come prelevare delle tasse.
Argomenti contro che sono stati branditi negli Usa anche nella campagna elettorale: il Repubblicano Ted Cruz ha chiesto un intervento legislativo per impedire alla Fed di procedere verso il dollaro digitale, Ron De Santis, altro Repubblicano, ha sostenuto che il dollaro digitale avrebbe violato il secondo emendamento dei diritti dei cittadini perché il governo avrebbe potuto bloccare, attraverso il portafoglio digitale, il loro diritto a comprare armi.
Poi sono scesi in campo gli stessi banchieri della Fed che non nascondono la loro contrarietà alla CBDC del dollaro, con argomenti che più espliciti non possono essere. Come quelli di Michelle Bowman, componente del direttivo dei governatori della Fed, in uno speach di pochi giorni fa sul tema dell’innovazione nel settore della finanza e della moneta.
Bowman ha parlato chiaro: l’innovazione è da appoggiare, purché sia corretta e affidabile e si muova costruendo su ciò che già esiste e funziona benissimo, cioè il sistema bancario e dei pagamenti americano.
Il suo altolà è nei confronti del dollaro digitale cosiddetto “retail”, cioè quello destinato al pubblico dei cittadini consumatori, diverso dal concetto di CBDC “all’ingrosso” deputato a gestire le transazioni tra le banche. Serve davvero avere dollari digitali nel proprio portafoglio virtuale per superare le barriere dell’inclusione finanziaria? Che problemi risolve rispetto all’accesso al denaro? E li risolve nel migliore dei modi? Si chiede Bowman.
Interrogativi retorici, perché la sua risposta è no. La capacità di innovazione del sistema dei pagamenti, negli Usa, è già in atto ed ha già prodotto le giuste soluzioni, è la tesi di Bowman, come per esempio il FedNow Service.
Di che cosa si tratta? Del sistema interbancario per i pagamenti lanciato dalla Fed a luglio di quest’anno, attraverso cui banche e mondo degli affari possono ricevere il denaro in qualsiasi momento in maniera istantanea. Quale altro miglioramento di efficienza si può ottenere attraverso una CBDC che non si è già ottenuto con FedNow? Semmai il dollaro digitale potrebbe essere portatore di nuovi rischi per il sistema bancario, oggi ben funzionante sia nel suo ruolo di trasmissione della politica monetaria che in quello di proteggere i dati finanziari dei consumatori anche dall’intrusione governativa.
Una CBDC del dollaro potrebbe insomma sfasciare il sistema dell’intermediazione bancaria, con effetti sulla stabilità complessiva dell’apparato finanziario complessivo.
E il giudizio per la CBDC “wholesale”, cioè la valuta digitale per i pagamenti interbancari è diverso? Anche qui Bowman picchia duro. L’infrastruttura deputata a garantire il flusso del denaro tra istituzioni come la Fed, le banche e il mondo finanziario esiste già, sostiene, e funziona, a parte il fatto che già adesso le banche detengono le loro riserve presso la Fed in modo digitale.
In questo sistema la novità che una CBDC può introdurre è quella delle piattaforme in cui le transazioni di denaro avvengono sotto forma di token e con modalità che si chiamano smart contract. Ma nonostante le possibilità offerte da queste innovazioni, attenzione: far passare il denaro della banca centrale su queste piattaforme condivise può creare nuovi rischi e complessità che non esistono oggi che il denaro transita solo sotto la sorveglianza della banca centrale.
Insomma, consiglia Bowman, non immaginiamo che l’innovazione possa risolvere tutti i problemi, quando magari questi problemi sono invece causati da leggi, vincoli di policy o anche dalle abitudini dei consumatori. Conclusione, quando si interviene con l’obiettivo di migliorare il Sistema dei pagamenti, l’opzione non deve essere necessariamente quella di usare soluzioni tecnologiche sovversive. Meglio lo status quo.
Ora, è chiaro che l’operazione dollaro digitale è irta di difficoltà e che le prime sono le difficoltà tecniche di costruire un sistema che da un lato bypassi le strutture attuali, dall’altro garantisca la stessa sicurezza e che protegga la privacy. Ma è sorprendente che proprio negli Usa, dove la tecnologia digitale ha permesso grandi innovazioni e dove esiste un terreno ricco di startup aperto alla ricerca, si mettano tanti paletti.
Ma è la difesa del sistema bancario esistente il cuore della questione. Si sa che le banche sono le prime a vedere le CBDC come il fumo negli occhi, perché toglierebbe loro una fetta importante di attività e di guadagno. La grande lobby si è quindi messa in movimento e ha incominciato a schierare le sue pedine per una partita campale. Staremo a vedere se l’Europa seguirà l’esempio. Soprattutto ora che Mediobanca ha chiarito la posta in gioco: l’euro digitale mette in pericolo i profitti delle banche europee erodendo dal 5 al 20 per cento il loro margine di interesse, tra esodo dei depositi, diminuzione delle commissioni e aumento dei costi operativi per dialogare con la piattaforma della nuova CBDC.