approfondimenti/regolazione
La regolamentazione del settore DeFi

Anticipiamo una sintesi dell'introduzione del prof. Raffaele Lener al volume "La Finanza Decentralizzata. Cripto-attività, protocolli, questioni giuridiche aperte", di Salvatore L. Furnari, EMB,  luglio 2023. Ecco di che cosa si parla quando si parla di DeFi

Raffaele Lener
lener

La Finanza Decentralizzata (più comunemente “DeFi”, termine che deriva dall’inglese Decentralized Finance) è un fenomeno sviluppatosi a seguito dell’avvento della tecnologia blockchain e della sua interazione con principi e metodi della finanza “classica”. Nonostante il suo sviluppo sia molto recente, la portata innovativa di questo settore sembra capace di far ripensare le modalità con le quali i mercati finanziari sono oggi regolati.

Gli strumenti tecnici che hanno favorito lo sviluppo di questo settore sono essenzialmente due: la blockchain e gli smart contract.

Originariamente connessa al solo protocollo Bitcoin, la blockchain può descriversi come un registro digitale, pubblico e permanente, oppure come un database distribuito presso gli utilizzatori che installino il software open source, necessario per compiere e registrare in maniera continua tutte le transazioni avvenute tra i partecipanti al network. La tecnologia consente di attestare se e quando si sia verificato un determinato scambio di valore tra coloro che la utilizzano, dispensando questi ultimi dal ricorso ai tradizionali meccanismi di certificazione utilizzati nei sistemi di pagamento, caratterizzati dalla necessità di un «terzo» garante (in genere, un’autorità centrale legittimata a svolgere la funzione di validazione delle transazioni).

Più in generale, i sistemi DLT, di cui la blockchain è una species, utilizzano una struttura tecnologica, ampiamente sperimentata nel mondo delle criptovalute, che mira a costruire una rete per la condivisione di informazioni tramite un registro distribuito (distributed ledger) funzionale a cristallizzare le transazioni tra le parti partecipanti alla rete, in modo definitivo, senza possibilità di una successiva alterazione delle registrazioni. In particolare, alcuni partecipanti alla rete assumono la funzione di nodi della DLT e la circolazione delle informazioni relative alle nuove transazioni avviene a mezzo di comunicazione tra i nodi stessi che, nella condivisione virtuale delle informazioni, ne attestano la verità e correttezza. Il meccanismo descritto assicura, così, la gestione decentralizzata di un database condiviso, affidata non a un’autorità centrale ma ai partecipanti stessi, strutturabile secondo metodologie differenti.

Gli smart contract, invece, possono essere descritti come una serie di istruzioni scritte in codice di programmazione, immesse sulla rete DLT e ivi destinate a rimanere “indipendenti”. In particolare, uno smart contract presenta due importanti caratteristiche: (i) la non necessaria azione umana per l’esecuzione della prestazione; nonché (ii) la possibilità di inserire sistemi di “auto-tutela” che garantiscano l’esecuzione del contratto e rendano non necessario l’intervento di un giudice in caso di inadempimento di una delle obbligazioni in esso contenute. Da questo punto di vista gli smart contract, una volta inseriti su una blockchain, si comportano come un agente “autonomo” e sono paragonabili a delle vending machine, ma molto più sicure. 

È corretto domandarsi, anche se non è agevole rispondere, almeno allo stato, se dal ricorso agli smart contract nel settore finanziario possano derivare benefici, in particolare alla luce della legge n. 12/19. L’utilizzazione degli smart contract potrebbe, invero, velocizzare la conclusione delle operazioni, mantenendo standard di tutela almeno pari a quelli offerti dalla forma scritta dei contratti redatti nella maniera tradizionale. Il cliente sarebbe, inoltre, garantito circa l’immutabilità delle clausole concordate all’atto della conclusione del contratto. Ancora, oltre alla maggior trasparenza, l’utilizzazione di uno smart contract renderebbe comunque più sicuro il cliente circa l’auto-esecuzione della prestazione, aumentando la fiducia che questi ha verso l’intermediario e i servizi che gli sono offerti.

Dal Fintech alla DeFi

In realtà il rapporto tra tecnologia e finanza è ben più risalente rispetto a quanto si tende a credere. Già nel 1967, con l’introduzione degli ATM (Automatic Teller Machine), si sono cominciati a vedere i possibili sviluppi dell’integrazione tra automazione e finanza. Ai commentatori del tempo la disintermediazione “umana” delle operazioni di prelievo contante suscitò interrogativi molto simili a quelli che oggi pongono fenomeni quali le cripto-attività.

Le applicazioni tecnologiche dedicate alla finanza sono state classificate inizialmente nel c.d. Fintech. L’area dei servizi finanziari si è invero dimostrata particolarmente fertile per le nuovissime tecnologie; sono infatti pochi i servizi che non si sono “evoluti” in senso tecnologico. Nel Fintech, la rivoluzione tecnologica consente nuove modalità di organizzazione dei servizi di investimento in cui la relazione tra intermediari e investitori si caratterizza per la tendenziale sostituzione dell’attività dell’uomo nei processi decisionali attraverso l’utilizzazione degli algoritmi. Invero, i sistemi informatici, hardware e software, possono automatizzare i processi decisionali delegando alla macchina non solo la mera esecuzione di una operazione ma, processando informazioni, anche la decisione di compiere una operazione. Ciò, tuttavia, non implica che l’attività decisionale dell’uomo sia inesistente; la programmabilità, caratteristica tipica di qualsiasi tecnologia che basi il proprio funzionamento su un sistema di algoritmi, comporta che l’essere umano (che sta dietro la macchina) imposti una serie di regole che stabiliscono a priori le reazioni della macchina alla ricezione di una determinata informazione. Grazie a queste regole, il programma agisce inoltrando gli ordini, al ricorrere delle condizioni prefissate. Dunque, inevitabilmente, esiste una attività decisionale umana, che però funge da “guida” e “indirizzo” per i compiti e la serie di azioni che verranno poi in concreto svolti dal programma. Nonostante le recenti innovazioni, la finanza tradizionale, quindi, è ancora gestita con modalità che vedono predominare l’apporto dell’uomo.

Alcune applicazioni tecnologiche alla finanza hanno, peraltro, avuto uno sviluppo particolarmente rapido in pochi anni. Esempio paradigmatico è lo sviluppo su scala sempre più ampia di piattaforme che, grazie alla rete internet, facilitano l’incontro di imprese e finanziatori, dando vita alle varie fattispecie di “crowdfunding”; in poco tempo, abbiamo assistito alle prime offerte pubbliche di cripto-attività (le c.d. ICO) con diverse forme (IEO, STO e DAICO) e da esse, a loro volta, è nata la c.d. Finanza Decentralizzata.

Nella Finanza Decentralizzata l’apporto umano è, per così dire, ulteriormente ridotto: l’uomo non offre più il servizio, sebbene agevolato dalla tecnologia, ma si occupa solo di programmare il software, che offre, alla fine, il servizio. In alcuni casi, poi, anche l’apporto umano che ha creato la tecnologia si “disperde”, decentrandosi presso un numero elevato di soggetti diversi. Il riferimento è alle c.d. DAO, organizzazioni decentralizzate autonome a cui è demandata non solo la mera offerta di servizi finanziari, ma prima ancora la decisione su quali servizi offrire e come farlo.

Regolamentazione e corretta applicazione del principio di neutralità tecnologica

Ci si interroga sul rapporto tra tecnologia e regole in questo settore; chiedendosi cioè “se” e “quale” debba essere la regolamentazione, ovvero se oggetto della regolamentazione debbano essere le piattaforme o gli algoritmi su cui si fondano. Sull’argomento, affrontato anche dalla Corte di Giustizia nel caso Uber, le istituzioni europee sembrava avessero adottato un approccio in base al quale, al di là della diversità dei soggetti che esercitano determinate attività, si dovesse seguire il principio per cui “same services and same risks: the same rules should apply, regardless of the type of legal entity concerned or its location in the Union”, unitamente al rispetto di principi chiave, come la proporzionalità in rapporto al rischio e la neutralità tecnologica. Tuttavia, il tema di “come regolare” (estendendo le attuali regole europee secondo un approccio per attività) e “per cosa” (con quali obiettivi) rimane al centro del dibattito europeo, specialmente nel settore dei mercati finanziari.

L’intervento dei legislatori sul Fintech è ancora confuso e frammentato e, in generale, sembra potersi dubitare che il principio di neutralità tecnologica si possa, al momento, concretamente applicare. Il pericolo è che la scarsa conoscenza della tecnologia possa incrementare quel fenomeno di overregulation di cui i mercati finanziari, in Italia e più in generale in Europa, già soffrono. Gli strumenti utilizzati dal diritto regolatorio sono molteplici: codici di condotta, linee guida, best practice, lettere al mercato, schemi contrattuali uniformi suggeriti con modalità diverse dalle Autorità, fino ai “recinti sperimentali” (tale è il sandbox, letteralmente recinto di sabbia dove i bambini possono giocare senza pericoli), in cui si gode di un notevole grado di libertà, ma appunto a fini sperimentali per la futura regolazione, una sorta di spazio normativo protetto dove poter sviluppare e sperimentare prodotti e servizi finanziari innovativi prima di offrirli sul mercato.

La Commissione UE, con il Fintech Action Plan del 2018, “per un settore finanziario europeo più competitivo e innovativo”, ha espressamente riconosciuto che la rapida evoluzione del settore impone di evitare una regolamentazione eccessivamente prescrittiva e precipitosa, che potrebbe portare a effetti indesiderati. E infatti nel Plan, tra i possibili strumenti di regolazione “soft”, si è ipotizzato il ricorso a “facilitatori dell’innovazione” (in particolare sandbox e innovation hub) e a tal fine è stato dato mandato al Joint Comittee delle autorità di vigilanza di redigere un rapporto sui facilitatori dell’innovazione in Europa, unitamente all’indicazione di best pratices per la loro costituzione e utilizzazione. I più recenti studi mostrano come il numero dei facilitatori dell’innovazione sia cresciuto rapidamente negli ultimi anni, al punto che la Commissione ipotizza una ampia collaborazione internazionale per sviluppare regulatory sandbox, proponendo la creazione di un network dei facilitatori, cui possano partecipare in modo aperto tutte le autorità europee competenti.

Ma tutti questi interventi, attraverso strumenti bensì flessibili e alternativi, ma comunque normativi, perché prevedono regole di condotta, pur non vincolanti, funzionano? Introdurre regole minuziose che dovrebbero trovare la loro forza non nella coercibilità, ma nella spontanea adesione, attraverso quelli che l’economia comportamentale chiama nudgets, alla prova dei fatti si è dimostrato utile o non piuttosto fonte di confusione? Si pensi alle Linee guida dell’ESMA del maggio 2018, che espressamente si dichiara non essere coercibili, ma prevedendo al contempo che autorità e intermediari “shall make every effort to comply with”.

Il timore è che lo sviluppo di strumenti di “soft law” di natura incerta porti a un eccesso di indulgenza, generando incoerenza nei comportamenti e scarsa compliance. Troppe regole, sovrapposte e confuse, apparentemente non vincolanti ed elastiche, rischiano di produrre l’effetto contrario. Nel mare delle regole di varia natura il rischio è che si scelga di adempiere ai doveri professionali di diligenza in modo soltanto formale e senza vera attenzione alle necessità del consumatore/investitore.

Condividi questo articolo