SCAMBI E POLITICHE COMMERCIALI/2
Il made in Italy va, ma manca una visione

Nella seconda parte del Rapporto Cer-Eures per il Cnel, qual è la capacità competitiva dell'Italia e un giudizio - severo - su come sono stati stanziati i soldi del PNRR per migliorarla

Paola Pilati

Come è collocata l’Italia rispetto alla nuova politica industriale della Commissione – definita, come abbiamo visto nella prima parte, della “Autonomia strategica aperta” – e qual è la sua capacità competitiva sui mercati internazionali? È questo il focus di questo secondo articolo dedicato al Rapporto Cer-Eures sulla globalizzazione e sulla collocazione internazionale dell’economia italiana.

Se l’Italia è riuscita a difendere le sue esportazioni negli ultimi dieci anni lo deve soprattutto al fatto che la domanda mondiale è cresciuta e si è rivolta in particolar modo proprio ai settori nei quali le esportazioni italiane detengono quote di mercato più elevate (tessile-abbigliamento, pelle-calzature, mobili, macchinari, alimentari). E lo deve anche al traino della parte più dinamica della sua industria manifatturiera. Questo ha assicurato all’industria del paese nel suo complesso una partecipazione alle GVC, le catene globali del valore, significativa: nel 2018 il 41,4% del totale delle esportazioni lorde italiane è costituito dal commercio GVC.

Ma i problemi di competitività restano. Non solo per fattori esterni come i costi dell’energia, le carenze delle infrastrutture, i limiti della Pubblica Amministrazione e del sistema della formazione e della ricerca, ma anche per la scarsa produttività. Tant’è vero che le imprese esportatrici sono solo 130 mila, meno del 3 per cento delle imprese attive, perché sono quelle con livelli di produttività tali da affrontare i costi fissi della internazionalizzazione.

Nell’ambito dei quattro paesi principali della Ue, l’Italia ha comunque un grado di apertura allineato a quello della Francia, ma inferiore a quello della Germania e anche della Spagna. Lo testimonia il dato degli investimenti diretti esteri (IDE) in percentuale del PIL (inferiori rispetto ai principali paesi dell’Eurozona), sia in termini di capacità di produrre all’estero da parte delle imprese italiane.

Aumentare l’internazionalizzazione attiva e passiva è quindi fondamentale per il nostro sistema economico ed è interesse delle imprese e del governo di lavorare per migliorare i fattori di attrazione delle imprese estere e rimuovere gli ostacoli a tale attrattività. Quanto ai problemi che limitano la competitività delle nostre imprese e frenano la crescita dell’economia italiana, la chiave, sostiene il Rapporto Cer, sta soprattutto in un programma di investimenti in conoscenze, capace di coinvolgere anche le piccole imprese. Non solo per migliorare la qualità del sistema di formazione e ricerca, ma anche per assicurare meccanismi efficaci per la condivisione delle conoscenze tecnologiche e organizzative tra centri di ricerca, imprese, istituzioni pubbliche e organizzazioni sociali.

Q. Noi siamo in grado di fare tutto questo al meglio?

A. Un fattore cruciale è la struttura operativa che si occupa del made in Italy. Il Rapporto ne mette in luce la notevole frammentazione, tra cabine di regia, conferenza delle regioni, comitati interministeriali, agenzie, spesso in concorrenza o in sovrapposizione. La definizione delle regole del gioco tra i diversi soggetti e le attività realizzate all’estero non possono essere frammentate in una molteplicità di canali, ma richiedono una regia unica nazionale, che ne assicuri la coerenza e ne rafforzi l’impatto sui mercati.

Una survey europea ha analizzato l’efficacia delle agenzie per l’attrazione degli investimenti esteri di otto paesi (Belgio, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Polonia, Spagna, Svezia). Ebbene, il caso italiano – dove opera a livello nazionale l’Ice con accanto 16 agenzie regionali – ha registrato risultati positivi nell’attrazione degli investimenti. Nei territori supportati dalle agenzie si sono registrati maggiori investimenti in entrata rispetto agli altri, mentre le regioni prive di un’agenzia di promozione degli investimenti (sono 6, e tra queste 4 sono del Mezzogiorno) hanno perso opportunità. La competizione tra Regioni nell’attirare investimenti ha però anche un effetto negativo sull’obiettivo di ridurre il divario territoriale che svantaggia il Sud. E questo dovrebbe spingere, considera il Rapporto, verso un coordinamento nazionale delle politiche per l’internazionalizzazione. Il che vuol dire riservare al centro le competenze in tale ambito, sottraendolo al gruppo di quelli a potestà concorrente. Proprio quelle Regioni che oggi invece quelle potestà le vogliono aumentare in tutti i campi.

Q. C’è stata qualche iniziativa diretta a far recuperare terreno alle imprese meno internazionalizzate che ha avuto successo?

A. Sì: i Voucher per l’internazionalizzazione, istituiti nel 2015 e poi replicati fino al 2020. Consistono in un contributo alle piccole e medie imprese per l’acquisto di servizi di consulenza: con un sussidio di 10 mila euro potevano assumere per almeno sei mesi un Temporary Export Manager (TEM), specializzato nelle attività di supporto al commercio internazionale. Le imprese che lo hanno utilizzato hanno aumentato il loro commercio, sia in termini di export che di import, con paesi al di fuori del Mercato Unico Europeo; le imprese che precedentemente non esportavano non sono riuscite ad entrare nei mercati esteri, ma hanno anche loro avuto un beneficio, perché il passaggio del TEM in azienda ha determinato importanti variazioni nella performance aziendale. Le imprese che hanno beneficiato del sussidio mostrano un aumento dei ricavi, della produttività del lavoro, dei profitti e del ROE (Return on Equity) e anche della domanda di lavoro.

Q. Come viene valutata la parte di PNRR dedicata all’internazionalizzazione?

A. Il giudizio del Rapporto non è positivo. “La costruzione del Piano italiano è stata di natura “additiva”: esso cioè non parte da una visione complessiva del paese da cui fa discendere le azioni ritenute opportune, ma rappresenta la somma di progetti e interventi”, scrive. “Il Piano individua, infatti, solo in limitata misura gli specifici progetti da realizzare; ne demanda la definizione a scelte che, sono state affidate ai singoli Ministeri… I singoli Ministri e le alte burocrazie ministeriali hanno avuto poteri di decisione assai ampi”, aggiunge.

La politica industriale assorbe una quota notevole delle risorse del Piano. Le misure inserite nelle diverse Missioni in cui è organizzato il Piano – in particolare “Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo”, “Rivoluzione verde e transizione ecologica” e “Istruzione e ricerca” – ammontano a più di 49 miliardi di euro, di cui 38,6 miliardi finanziano misure di cui sono principalmente beneficiarie le imprese. Dei 49 miliardi totali più di 18 sono destinati alla misura Transizione 4.0; finalizzate a specifiche industrie sono invece misure (per 13,3 miliardi) per la microelettronica, per l’industria dello spazio, per diversi ambiti delle produzioni energetiche e per l’idrogeno, per l’agroalimentare, per il turismo.

Q. Che male c’è nel fare un piano di “natura additiva”?

A. “Significa che tutte le sue misure non nascono da un compiuto disegno con l’obiettivo di determinare un complessivo potenziamento del sistema produttivo italiano, di una sua espansione verso una manifattura e servizi avanzati a più alto tasso di innovazione… Emerge con difficoltà una visione d’insieme che individui una missione per il paese non solo nella produzione di energie, ma anche nelle tecnologie, nei sistemi e nei componenti necessari per produrle. Allo stesso tempo, il Piano non individua azioni specifiche per accompagnare la complessa, difficile transizione di importanti industrie italiane, a partire da quella dei veicoli a motore, verso il nuovo paradigma dell’elettrificazione. Le stesse misure per la siderurgia appaiono ancora molto sfocate. Non dedica attenzione a specifici interventi che riguardano le imprese e le aree di crisi presenti nel paese, né alle possibili opportunità di rientro (reshoring) in Italia di segmenti produttivi spostati all’estero. Non vi è una specifica copertura delle fondamentali attività di servizi avanzati per la produzione, specie a matrice digitale: è un Piano molto orientato alla manifattura. Non viene mai motivato il dimensionamento finanziario, così differente, delle diverse misure. È poi assente, se non per i profili di selezione delle domande, uno sforzo per dotare il nostro Paese di un centro di competenza e coordinamento in questa materia. Un tema di grandissima urgenza sia in un’ottica ‘orizzontale’ – relativamente ai rapporti tra le diverse politiche – sia ‘verticale’, per quel che riguarda le relazioni con la Commissione Europea e le Regioni”. Così risponde testualmente il Rapporto. Che mette in evidenza anche un altro aspetto: come “non vi siano specifiche condizionalità per la concessione dei cospicui incentivi; in particolare rispetto al potenziamento della base occupazionale, specie per le qualifiche più elevate. Nel testo del Piano, e nei provvedimenti che lo attuano non c’è traccia di tali indirizzi. Gli stessi obiettivi finali indicati nel Piano attengono molto più all’erogazione delle risorse che al raggiungimento di elementi di una nuova fisionomia del sistema produttivo nazionale”. Un giudizio severo, ma su cui ci sarebbe ancora tempo per intervenire. Purché ci siano orecchie pronte ad ascoltare, cosa che appare difficile.

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