"La globalizzazione fragile e l’autonomia strategica dell’Europa: le sfide per la politica economica estera dell’Italia" è il titolo del Rapporto Cer-Eures che indaga le tendenze recenti delle principali politiche capaci di influire sulla collocazione internazionale dell’economia italiana e sulla competitività delle imprese
Un liceo del made in Italy, bollini di autenticità per i prodotti, multe per chi vende e chi compra merci contraffatte… Adolfo Urso, ministro per le Imprese e per il made in Italy, aggiunge iniziative per difendere e promuovere l’identità commerciale del paese che hanno, alcune un sapore di déjà vu (bollini e multe), altre un orizzonte lungo. Ma intanto la competizione sui mercati si fa sempre più dura, prima con il covid, ora con la guerra e infine con l’inflazione, e cambia il quadro di riferimento su cui gli scambi si erano sviluppati negli ultimi anni.
Rispetto al passato, a cambiare c’è anche la percezione dell’importanza che ha la competitività del sistema paese sui mercati. Investimenti, sviluppo tecnologico, ruolo nel nuovo contesto geopolitico sono diventati centrali per assicurarsi un peso nel gioco delle alleanze, garantirsi un’autonomia di iniziativa, far valere il proprio appeal. Importanza per via del fatto che l’import export è sempre stato una carta vincente per l’economia italiana (anche se con un divario crescente rispetto a Germania e Spagna), ma anche a causa della nuova attenzione che il governo dell’Eurozona sta riservando ai temi della cooperazione internazionale, su cui ha sempre puntato attraverso una fitta rete di rapporti commerciali bilaterali ma che ora è diventata una vera e propria strategia dell’Unione per ridurre la propria dipendenza dalle fonti esterne di approvvigionamento e per la difesa e la sicurezza di alcuni settori.
Un Rapporto del Cer – Centro Europa ricerche – fatto per il Cnel in collaborazione con Eures – Ricerche economiche e sociali – mette a fuoco le sfide per la politica estera dell’Italia nel quadro europeo, ne approfondisce tutti gli aspetti, dal rallentamento della globalizzazione alle nuove barriere, anche non tariffarie ma politiche, agli scambi. Un modo questo per dare risposta a una domanda di protezione crescente, sia per l’aumento delle disuguaglianze, sia per gli shock esogeni della pandemia e della guerra, ma su cui la politica – soprattutto quella comunitaria – ha deciso di fare la propria parte con una serie di strumenti. Un Rapporto ricchissimo, che tocca in maniera profonda tutti i temi sul tappeto: quasi un corso di laurea accelerato sulla materia. Essendo complesso da sintetizzare, si è scelta la strada di una sua semplificazione attraverso l’escamotage delle Q&A, le domande e le risposte. Qui la parte di cornice generale. In un secondo articolo, quella più mirata sulla situazione italiana e la sua posizione competitiva.
Q. La globalizzazione è finita?
A. No, ma un suo rallentamento è sotto gli occhi di tutti. Non saranno tanto gli scambi a soffrire quando la mappa dei flussi a essere ridisegnata: la fragilità della Russia penalizzata dalle sanzioni occidentali darà forza alla Cina per realizzare l’obiettivo che persegue da tempo. Quello di mettere il crisi la leadership americana sul terreno tecnologico e le regole degli scambi stabilite dal mondo occidentale, spingendo all’angolo le istituzioni internazionali disegnate dopo la Seconda Guerra mondiale per agevolare lo sviluppo (come il Fondo monetario) e alimentando l’insofferenza di alcuni paesi emergenti. Quello che si prevede – a medio termine – sarà piuttosto un decoupling in quei settori dove l’avanzamento tecnologico è strategico, come nella sicurezza, dove l’innovazione è più spinta e l’uso di semiconduttori più intenso.
Q. Le catene globali del valore funzionano ancora?
A. Che le catene globali del valore ultimamente se la passino male è visivamente dimostrato dal grafico https://www.newyorkfed.org/research/policy/gscpi#/interactive dell’indice Global Supply Pressure Index, creato dalla Federal Reserve Bank di New York per misurare le difficoltà nell’offerta o interruzioni nei rifornimenti. Ma le catene non sono affatto scomparse né arretrate e probabilmente non lo saranno mai. Il via ai discorsi sul reshoring, il nearshoring, il friendshoring era già partito dopo la Grande crisi finanziaria. Eppure le catene avevano resistito: accorciate, riconfigurate scoprendo nuove fonti di approvvigionamento, maggiore resilienza agli shock, più veloce capacità di reazione agli inconvenienti. Poi è venuto il Covid: l’Industrial Development Report 2022 dell’UNIDO sostiene che in media il 71% delle imprese ha riscontrato una carenza di fattori produttivi in seguito allo scoppio della pandemia e che questa percentuale è salita al 77% per le imprese che partecipavano a catene del valore globali o regionali (soprattutto in Asia). Lo shock della guerra ha esacerbato le interruzioni delle reti produttive globali nelle cosiddette “fasi a monte”, cioè della fornitura di materie prime. Con effetti di portata trasversale: l’aumento dei prezzi dei beni energetici ha aumentato i costi di trasporto e influenzato tutte le CGV, e le interruzioni delle esportazioni di cibo e l’aumento dei prezzi hanno avuto un fortissimo impatto su tutte le catene del valore agroalimentari. Ma cambiare strategia rispetto alle scelte di internazionalizzazione non è facile per le imprese.
Q. Quali sono state le reazioni agli shock sui modelli di globalizzazione?
A. La reazione delle diverse parti del mondo è stata diversa. Le imprese delle economie emergenti e in via di sviluppo di Africa, Asia e America Latina, hanno risposto alla crisi con dei miglioramenti, per non perdere il loro ruolo centrale di fornitori nelle catene globali ma soprattutto regionali del valore. La maggior parte delle imprese statunitensi (fino al 90%) , secondo il Kearney Reshoring Index del 2021, si è ora dichiarata invece favorevole al reshoring e il 79% di quelle con attività produttive in Cina ha già trasferito parte delle proprie attività negli Stati Uniti o ha intenzione di farlo nei prossimi tre anni. Di tutt’altra opinione gli europei. Secondo Eurostat (2022), un numero molto inferiore di imprese ha detto di aver riportato in patria fornitori o produzioni o di volerlo fare nei prossimi tre anni. Inoltre i pochi studi recenti hanno messo in evidenza che le imprese internazionalizzate, soprattutto quelle nelle catene del valore, sembrano aver subito meno le conseguenze della pandemia, sia in termini di fatturato che in capacità di rispondere alla crisi. Anche uno studio recente della World Bank (2022) sottolinea che la guerra accresce il rischio geopolitico e quindi i costi associati alla partecipazione alle CGV, eppure i benefici della partecipazione alle reti internazionali (riduzione dei costi, efficienza) rimangono invariati. Ma è il nuovo scenario prodotto dall’antagonismo Usa-Cina e dalle rispettive strategie di crescita e di difesa delle proprie tecnologie la sfida per l’Europa. La decelerazione della globalizzazione e la tendenza alla regionalizzazione degli approvvigionamenti stanno riconfigurando le catene globali del valore. Un mondo diviso in blocchi regionali non conviene alle imprese europee, che sono fortemente dipendenti dalla domanda estera. La riposta, suggerisce il Rapporto Cer, venire da politiche industriali e investimenti comuni non solo per garantire la produzione di input strategici (per esempio i microprocessori), ma anche per sostenere la domanda interna.
Q. Esiste una politica industriale europea? E in che cosa consiste?
A. Il succedersi delle Commissioni di governo della Ue (da Prodi a Barroso a Junker), ha fatto evolvere l’approccio dell’Unione alla politica industriale fino all’impostazione attuale (von der Leyen), che si sintetizza nello slogan: “Autonomia strategica aperta”. Così la spiega la Commissione: «L’autonomia strategica dell’Europa consiste nel ridurre la dipendenza dalle fonti esterne per ciò di cui abbiamo più bisogno: materiali e tecnologie critici, prodotti alimentari, infrastrutture, sicurezza e altri settori strategici”. Si va dalla robotica alla microelettronica, dalle infrastrutture cloud alle tecnologie quantistiche, dalla biotecnologia e biomedicina ai servizi spaziali. Tanto per avere una idea delle nostre dipendenze strategiche, su 5.200 prodotti importati nella UE, ce ne sono 137 (pari al 6% del valore totale delle importazioni di beni nella stessa UE) per i quali l’Unione è “altamente dipendente”, e circa la metà delle importazioni di questi prodotti provengono dalla Cina (52%). Gli strumenti per attuare questa strategia sono due: le Alleanze industriali e gli Importanti progetti di comune interesse europeo, gli IPCEI. Sono già partite le prime otto Alleanze (tra cui materie prime, batterie, cloud, idrogeno); quanto agli IPCEI, che sono imperniati su partnership pubblico-private, vengono definiti lo strumento cruciale della strategia e sono pensati per affrontare temi dove il mercato da solo non ce la fa, ne sono già partiti quattro (batterie microelettronica, idrogeno e salute). Tutti campi in cui gli stati membri possono mettere in comune le risorse finanziarie, agire rapidamente e mettere in collegamento i soggetti appropriati lungo le principali catene del valore.
La strategia di rafforzamento industriale della Ue prevede anche uno strumento difensivo: è il “Quadro per il controllo degli investimenti diretti esteri (IDE)”, attraverso il quale uno stato membro può, grazie a un meccanismo di cooperazione con la Commissione, disporre di strumenti trasparenti e non discriminatori per esaminare gli IDE. A coronare il Piano per la ripresa dell’Europa c’è infine il più grande pacchetto di stimoli mai messo in campo: 2000 miliardi di euro nel complesso, con il pezzo forte rappresentato dagli 800 miliardi del NGEU.