Le lezioni di queste primarie: su come si fanno le campagne elettorali, sui temi che influenzano il voto e su cosa ci si attende dal Pd
La gran parte di chi segue distrattamente la politica, ma anche la maggioranza dei commentatori e dei sondaggisti, si aspettava la vittoria di Bonaccini. Ha vinto nettamente Elly Schlein che è diventata la nuova segretaria del Partito Democratico. Perché? Come è stato possibile?
Partiamo da due dati semplici. Il primo: nella votazione all’interno del partito Bonaccini ha vinto con quasi 20 punti di distacco sulla Schlein (Bonaccini 52,87%, Schlein al 34,88%, Cuperlo al 7,96%, De Micheli al 4,29%). Il secondo: nelle primarie aperte anche ai non iscritti il 53,75% dei voti è andato alla Schlein e il 46,25% a Bonaccini, ovvero la candidata vincente ha completamente ribaltato la prima votazione con circa 7 punti di vantaggio. Senza scendere nel dettaglio della distribuzione dei voti – lo hanno già fatto diversi commentatori – qual è qui il punto decisivo da sottolineare?
Nei tradizionali partiti di massa del passato, chi aveva l’organizzazione aveva gli strumenti per vincere: militanti e iscritti non solo erano essi stessi una falange che assicurava il proprio voto, un’elezione dopo un’altra, ma erano anche in grado di mobilitare una gran quantità di voti di parenti e amici del bar, del lavoro, degli altri luoghi che frequentavano, oltre che attraverso le forme tradizionali di propaganda. Questo mondo è totalmente scomparso. L’organizzazione, ormai più leggera e limitata con i suoi militanti e volontari, non è più in grado di moltiplicare il consenso. Il voto si conquista diversamente, attraverso la comunicazione. Però, attenzione, questo non deve portare a conclusioni affrettate e semplificanti.
L’iscritto/militante rimane sempre una ricchezza insostituibile di un partito che vuole mantenere una comunità di riferimento, sia pure più ristretta. Più esplicitamente, senza tutti i volontari che hanno assicurato la possibilità di votare in oltre 5.500 seggi, le primarie semplicemente non si sarebbero potute fare. Dunque, questo gruppo, che purtroppo non ha tanti giovani nelle proprie file, non può essere dimenticato e messo da parte. Semmai andrà rinnovato e motivato.
Rimane che oggi per vincere una competizione elettorale, qualunque sia, serve una campagna semplice ed accattivante, come quella della Schlein, che con i riferimenti a disuguaglianze, lavoro e ambiente ha conquistato l’interesse e le speranze di un’opinione molto ampia. Se fra i partecipanti alle primarie ci sono stati – come è in effetti avvenuto, in base ai dati messi a disposizione dal gruppo di ricercatori della Società Italiana di Scienza Politica – dei votanti di 5 Stelle o dei Verdi o altri pezzi di sinistra, è una buona notizia non una cattiva. Sono elettori potenziali del nuovo PD.
Tre le lezioni di queste primarie. Le campagne elettorali si fanno su temi specifici che attraggono e creano speranze di cambiamento, come si è già visto in precedenti occasioni, ad esempio, con campagne condotte dalla Lega o dal Movimento 5 Stelle. Insistere sulla creazione di identità politiche in un mondo complesso e frammentato in cui ciascuno ha più di una identità è solo retorica, in qualche occasione utile, ma sempre retorica. I temi delle campagne, poi, devono essere trasversali: ambiente, lavoro o anche lotta alle disuguaglianze non riguardano solo la sinistra. Si pensi a quanti lavoratori dipendenti a basso reddito hanno votato Fratelli d’Italia nelle ultime elezioni.
Chi crede che a questo punto vi sia spazio per un terzo polo moderato al centro non ha ancora compreso un meccanismo che influenza il voto: non è in primo piano l’essere moderati o radicali e neppure essere riformisti o no. Nelle democrazie contemporanee, quello che conta è riuscire ad attirare l’attenzione del votante su temi che possono riguardare diverse persone con posizioni sociali diverse, come ha ora dimostrato la campagna della Schlein. Qui non c’è differenza, in termini del meccanismo di fondo, tra primarie ed elezioni vere e proprie. Questo significa che non conta essere riformisti o no. Siamo tutti necessariamente riformisti. Significa individuare i temi che in quelle specifiche elezioni attraggono ed essere in grado di farli arrivare alle persone attraverso tutti i mezzi offerti dalle tecnologie digitali.
Questa considerazione porta al terzo punto: il nuovo PD dovrà decidersi a svecchiarsi e modernizzarsi accogliendo in pieno le nuove tecnologie di persuasione dell’opinione pubblica. E a questo fine potrà darsi tempo fino alle elezioni europee del prossimo anno, dove il sistema proporzionale mostrerà bene se la trasformazione comunicativa è avvenuta o no. E proprio questa trasformazione potrà svuotare le correnti senza svuotare il partito.
Alla fine, la sfida maggiore è un’altra, e la nuova segretaria dovrà vincerla nei prossimi mesi, a cominciare dalle elezioni regionali e locali di primavera. La sfida più importante sarà dimostrare di essere una leader, dotata della caratteristica centrale e definitoria di una/un leader: la capacità di unificare mondi diversi, magari riuscendo a trasmettere una visione fatta di speranze e aspettative. Come ha appena dimostrato la Meloni e in passato diversi altri personaggi politici, Berlusconi compreso.