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I rifiuti crescono più del Pil

Rispetto all'obiettivo europeo di far crescere il Pil senza far crescere anche i rifiuti prodotti dalle attività economiche, l'Italia è maglia nera, mentre Francia Germania hanno già imboccato la strada virtuosa del disaccoppiamento. Una possibile soluzione? Rendere più semplice la trasformazione degli scarti in sottoprodotti, da reimmettere nel ciclo produttivo

Andrea Ballabio, Donato Berardi, Nicolò Valle*
Ballabio
Berardi
Valle

Nel 2020, su 174,9 milioni di tonnellate di rifiuti complessivamente prodotte in Italia, quelle riconducibili alle attività economiche hanno raggiunto 81,1 milioni di tonnellate. Negli ultimi 10 anni, la tendenza è sempre stata in crescita in termini assoluti, con un unico leggero calo registrato a seguito delle restrizioni per contenere la diffusione del COVID-19, laddove anche l’incidenza sulla produzione complessiva è aumentata.

A livello di settore economico, la gestione delle acque e quella dei rifiuti sono i principali produttori, con 42,2 milioni di tonnellate, corrispondenti al 52% del totale dei rifiuti derivanti dalle attività economiche. Segue, a distanza, la manifattura, con 23,4 milioni di tonnellate (29% dei rifiuti delle attività economiche). La sola “gestione dei rifiuti” è passata dai 17,9 milioni di tonnellate del 2010 ai 37,2 milioni del 2020 (+108% in dieci anni), diventando così il primo settore produttore di rifiuti.

Per quanto concerne, invece, la tipologia di rifiuto, i rifiuti secondari – derivanti dal trattamento dei rifiuti stessi – ammontano a 25,3 milioni di tonnellate, pari a circa un terzo dei rifiuti prodotti dalle attività economiche nel 2020. Tra il 2010 e il 2020, i rifiuti derivanti dal trattamento dei rifiuti medesimi sono aumentati, tanto in peso quanto in quota del totale dei rifiuti da attività economiche. È evidente, quindi, che la produzione di tali rifiuti sia diventata una vera e propria peculiarità del sistema italiano.

La crescita del PIL fa peggio della produzione di rifiuti

Le politiche ambientali di derivazione europea degli ultimi anni, e nello specifico quelle che ruotano intorno al tema dell’economia circolare, si sono concentrate a più riprese sul tema del disaccoppiamento, il c.d. “decoupling” tra la creazione di valore aggiunto e la produzione di rifiuti. L’intento è quello di portare i Paesi membri dell’Unione Europea (UE) a traguardare una crescita economica maggiormente sostenibile, ove gli incrementi nel PIL non siano accompagnati da maggiori volumi di rifiuti prodotti dai tessuti produttivi europei.

Il confronto tra le performances dell’Italia e degli altri grandi Paesi UE (Germania, Francia, Spagna) è riportato nella tabella sottostante, ove sono stati calcolati i tassi di variazione percentuali della produzione di rifiuti da parte delle attività economiche e del PIL. Contestualmente, è stata ricostruita una misura del disaccoppiamento, espressa dalla differenza tra la variazione nel tempo della produzione di rifiuto e quella del PIL. Uno scarto negativo testimonia il disaccoppiamento tra i due andamenti, laddove invece la differenza risulta positiva, lo sganciamento non è stato conseguito. Per tutte le variabili, l’orizzonte temporale di riferimento è quello 2010-2020.

L’analisi evidenzia il mancato raggiungimento del disaccoppiamento tra PIL e rifiuti nel nostro Paese. Osservando i dati qui riportati, emerge chiaramente come l’Italia si è progressivamente allontanata dall’obiettivo, con una differenza tra la crescita dei rifiuti prodotti dalle attività economiche e quella del PIL vicina al 30%. L’Italia è il Paese ove la produzione di rifiuti è cresciuta di più (+21,5%), nonostante la riduzione del PIL più consistente (-8,2%) nel decennio.

Come si evince dal grafico sottostante, Francia e Germania presentano al contrario una differenza di segno negativo, pari rispettivamente a -8,6% e a -3,2%, a segnalare dunque un disaccoppiamento avvenuto. La Spagna, invece, è ancora lontana dal disaccoppiamento pur con risultati lievemente migliori dell’Italia, potendo contare su una minore intensità di produzione di rifiuti per unità di PIL.

Come si spiegano le performances negative dell’Italia? Una prima motivazione del mancato raggiungimento del disaccoppiamento è ascrivibile al rapporto tra la produzione di rifiuti delle attività economiche e il PIL. Come si può osservare dal grafico sottostante, l’Italia è il Paese che presenta la maggiore intensità di produzione per unità di PIL, lungo l’intero decennio 2010-2020. Una tendenza, questa, che ha raggiunto il massimo nel 2020, ove l’indicatore si è attestato a 51,6 kilogrammi per migliaia di euro di PIL, complice anche l’impatto negativo del COVID-19 sull’economia, allargando così lo spread con gli altri grandi Paesi europei.

L’evidenza sembra suggerire che le attività che hanno subito un fermo più incisivo nell’emergenza COVID-19, tipicamente turismo, servizi e commercio, hanno una intensità di produzione di rifiuto per unità di PIL minore. Venendo, infatti, a mancare una parte del PIL prodotto da queste ultime, l’intensità media dei rifiuti prodotti per unità di PIL è cresciuta.

Una parte, poi, della maggiore intensità di produzione di rifiuti è riconducibile al tessuto manifatturiero domestico, che si dimostra un produttore più consistente di rifiuti se raffrontato con quello di Francia e Germania. Nel 2020, l’industria manifatturiera italiana ha generato circa 117 chilogrammi di rifiuti per 1.000 euro di VAL (valore aggiunto lordo), a fronte degli 86-87 chilogrammi di Francia e Germania. La distanza dalle migliori esperienze europee accomuna molti settori manifatturieri di nostra specializzazione: l’Italia produce più rifiuti per 1.000 euro di PIL nel tessile, nell’arredamento e nel food&beverage.

L’anomalia del nostro Paese non dev’essere letta necessariamente come minore efficienza o attenzione alla prevenzione da parte del sistema industriale italiano. Piuttosto, rivela una certa immaturità nella disciplina dei sottoprodotti, che induce le imprese a gestire come rifiuti anche materiali e scarti che potrebbero essere reimmessi nel processo produttivo, causando così un addendum di costi e carico amministrativo.

Quali soluzioni?

I numeri qui esposti mostrano chiaramente come l’Italia produce più rifiuti da attività economiche – per unità di PIL – rispetto agli altri Paesi UE. È evidente, quindi, la necessità di intervenire, individuando soluzioni adeguate, affinché possa essere avviato un percorso che porti a sganciare la creazione di valore aggiunto dalla produzione di rifiuto, specialmente riducendo i rifiuti derivanti dal trattamento dei rifiuti medesimi.

Accanto al miglioramento nel campo dell’ecodesign, con una progettazione dei beni che ne riduca l’impatto ambientale lungo l’intero ciclo di vita, la strategia di prevenzione per ridurre i volumi di rifiuti da attività economiche creati passa attraverso un più efficace funzionamento dell’istituto del sottoprodotto e un più ampio ricorso alle pratiche di simbiosi industriale. Quest’ultima rappresenta uno dei pilastri della Strategia Nazionale per l’Economia Circolare, ovvero una delle grandi riforme previste dal PNRR per il settore dei rifiuti.

Il sottoprodotto è un istituto giuridico con cui le sostanze e gli oggetti in uscita, come scarti, dai processi produttivi possono riutilizzati direttamente all’interno dei medesimi processi senza trattamenti ulteriori rispetto alla normale pratica industriale. Tali quantitativi evitano, così, di essere catalogati come rifiuti, venendo reimpiegati come input produttivi direttamente nel mondo industriale.

Fino ad ora, il perimetro dei sottoprodotti è stato eccessivamente ristretto, limitando la casistica della remissione di scarti nelle filiere produttive senza ulteriori trattamenti. Ciò che ha frenato lo sviluppo di tale istituto è l’incertezza applicativa della normativa di riferimento, che porta gli operatori a preferire la classificazione come rifiuti, anziché come sottoprodotti, sottoponendosi così a regole più stringenti e onerose.

Infine, un contributo tangibile potrà arrivare da un efficace funzionamento di un altro istituto giuridico, vale a dire quello dell’End of Waste (EoW). Ancorché si tratti del processo con cui un rifiuto cessa di essere tale grazie ad un’operazione di recupero, l’EoW è funzionale ad evitare un ricorso eccessivo e ripetuto alle forme di trattamento intermedio, con la conseguenza di accrescere la produzione di rifiuti secondari, che costituiscono un tratto caratteristico del sistema italiano. Attualmente, i provvedimenti EoW denotano farraginosità e incertezza relativamente ai vari passaggi tra organi competenti, causando così un allungamento eccessivo delle tempistiche che arreca danno alle imprese e agli operatori del settore.

*Laboratorio REF Ricerche

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