ORARIO DI LAVORO
Lavorare 4 giorni alla settimana e vivere felici

Dopo il Covid e l'esperienza dello smart work c'è voglia di rivedere lo schema classico di presenza sul posto di lavoro. Dalla Nuova Zelanda è nato un movimento che promuove il week end di tre giorni. E sta conducendo un test in giro per il mondo che rivela molte sorprese

Paola Pilati

Lavorare quattro giorni la settimana diventerà il nuovo slogan delle rivendicazioni sindacali? Con il Covid e il lungo periodo di smart working, la sensibilità sul tema della presenza fisica nel luogo di lavoro e sui vincoli di orario è molto cambiata. Non solo dal punto di vista dei datori di lavoro, ma soprattutto dei lavoratori, che hanno improvvisamente preso coscienza che si può lavorare anche in un modo diverso da quello considerato canonico, e che questo nuovo modo presenta molti vantaggi, assaporati i quali è molto difficile tornare indietro. Gran parte del fenomeno della “great resignation”, cioè dell’addio volontario al posto fisso per una ricerca di una maggiore armonia tra lavoro e spazi personali è dovuto proprio a questa nuova sensibilità.

Mentre il governo Meloni ha deciso di abolire lo smart working (tranne che per i lavoratori fragili), come se spingendo un bottone si tornasse improvvisamente all’ordine ante Covid, tutto intorno il mondo del lavoro è cambiato e sta ancora cambiando.

La settimana lavorativa di 35 ore, che nel 1998 fu oggetto di una battaglia politica che fece cadere il governo Prodi, è diventata  possibile nel settore scuola per il personale amministrativo, e da poco una banca delle dimensioni di Intesa San Paolo ha messo sul piatto della trattativa sindacale la settimana di 36 ore su 4 giorni (contro 37,5 ore su 5 giorni), dunque 9 ore al giorno. A parità di stipendio.

Non è un’eccentricità, perché nel mondo l’idea di poter lavorare solo 4 giorni a settimana, allungando a tre giorni il week end, è diventato addirittura un movimento. Si chiama “4day week global”, è una no profit neo zelandese e per promuovere il suo obiettivo ha messo in piedi una serie di studi in tutti mondo che vogliono testare non solo il gradimento dei lavoratori, ma anche gli effettivi risultati in termini di efficienza sul lavoro per chi li stipendia.

Un test dei 4 giorni lavorativi si sta svolgendo tra Usa e Canada, quello in Europa partirà in febbraio, mentre il primo che si è concluso si è svolto tra Usa, Irlanda e Australia, ha coinvolto circa mille lavoratori per dieci mesi, con l’aiuto del Boston College, dell’Università di Dublino e della Cambridge University. Il risultato è stato che nessuna delle 33 aziende coinvolte, alla fine del test, vuole ritornare al sistema precedente, quello dell’orario su 5 giorni: non solo i lavoratori, il che potrebbe essere ovvio, ma neanche i datori di lavoro.

Questi ultimi hanno infatti registrato aumenti di produttività, diminuzione dell’assenteismo e riduzione delle dimissioni volontarie. Hanno riscontrato anche più coinvolgimento nei compiti svolti dai propri dipendenti e anche una maggiore facilità ad assumerne nuovi. Lato dipendenti, i benefici hanno entusiasmato tutti, con meno stress, sonni più tranquilli, meno conflitti lavoro-famiglia e più tempo libero per gli hobby (nel caso degli uomini, in pochi l’hanno utilizzato per partecipare di più al menage familiare).

Infine, i supporter della soluzione dei 4 giorni sottolineano i vantaggi in termini ambientali, visto che riducendo i giorni di lavoro si riducono anche gli spostamenti, il consumo di energia e la produzione di CO2.

L’aspetto più critico del test è però un altro: riportare i partecipanti allo stato precedente. Questo perché dopo aver assaggiato il nuovo regime, i lavoratori sentono che per tornare ai 5 giorni di lavoro settimanale per 40 ore meritano un aumento della paga: il 42 per cento di loro lo quantifica tra il 26 e il 50 per cento in più, il 13 oltre il 50 per cento, un altro 13 pensa che non ci sia denaro che possa compensarli per il ritorno al passato. Un problema che il movimento neozelandese forse non aveva previsto.

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