La forza della moneta americana sta terremotando Borsa, mondo finanziario, conti delle imprese. È il momento giusto per un nuovo accordo del Plaza?
Il declino del dollaro come valuta dominante è stato previsto più volte, ma ogni volta rinviato. Ora però che ci troviamo di fronte a un salto d’epoca, come lo ha definito Massimo Cacciari in un articolo sulla Stampa dell’8 luglio scorso, un evento di svolta in cui nulla può tornare come prima, viene il dubbio che anche per il dollaro sia venuto il momento di affrontare un cambiamento radicale.
Il primo fronte di turbolenza è iniziato con la guerra in Ucraina e con le sanzioni contro la Russia. In questo scenario, non solo il fronte degli scambi internazionali ha segnalato la crescita di contratti commerciali in valute diverse dal dollaro, ma è decollato un sistema dei pagamenti internazionali indipendente dallo Swift, cioè il Cips, controllato dalla Cina, che ormai conta le adesioni di istituzioni finanziarie in più di 100 paesi e si propone come alternativo a quello occidentale, finora dominante.
Il Fondo monetario internazionale ha poi certificato che il peso del dollaro come valuta privilegiata nelle riserve delle banche internazionali in giro per il mondo, che alla fine del secolo scorso costituiva il 71 per cento del totale, a fine 2021 era sceso al 59 per cento, con l’euro al 20 per cento, e con l’ingresso sulla scena del renminbi.
Di qui a fare concorrenza al dollaro sul terreno della disponibilità di titoli e della loro liquidità ce ne corre. Non ci sono mercati, a tutt’oggi, che possono competere con quello dei titoli denominati in dollari. E non c’è valuta che sia altrettanto internazionalmente convertibile. Ma i segnali di un lento e forse inesorabile declino ci sono.
A fare il resto, nell’ultimo anno, c’è stata la vistosa rivalutazione del dollaro spinto dall’aumento dei tassi deciso dalla Fed: la valuta americana è cresciuta del 17 per cento rispetto all’insieme delle valute dei mercati più sviluppati, il livello più alto degli ultimi 20 anni. Questa forza, che nessuno per ora vede come possa essere contrastata, ha fatto materializzare un robusto fronte antagonista innazitutto in patria. Mentre i turisti americani si godono beati la loro supervaluta in giro per il mondo, l’economia interna manda segnali di sofferenza. I titoli tecnologici, beniamini della Borsa, soffrono particolarmente quando i rendimenti dei bond governativi salgono, come è avvenuto negli ultimi mesi. Le imprese si stanno leccando le ferite perché la chiusura dei conti del terzo trimestre ha messo in evidenza mancati guadagni per circa 10 miliardi, perché il dollaro forte riduce il valore delle vendite fatte in altre valute.
E un altro allarme viene dall’insieme dei mercati finanziari, che appaiono sotto stress sotto diversi aspetti (come dimostra l’indice OFR che lo misura, che si aggira oltre i due punti, mentre quando le condizioni dei mercati sono normali l’indice segna zero): le imprese hanno difficoltà a ottenere finanziamenti, la compravendita di titoli si è inceppata, gli investitori sono sempre più spaventati dal rischio e cercano di liquidare più posizioni possibile. Chi viene additato come il colpevole? Appunto il dollaro. E dietro di lui la Fed, che non si decide a indicare il pivot, cioè quando smetterà di alzare i tassi.
Non sarà un caso, infatti, se dopo il meeting annuale del Fondo monetario, abbia cominciato a serpeggiare il presagio che qualcosa di catastrofico possa accadere, cioè che si stiano preparando le condizioni ideali per un incidente finanziario. E che quindi sia meglio intervenire più in fretta possibile. Come? Non a caso è tornato in auge l’accordo del Plaza, quello che, nel 1985, portò banchieri centrali e ministri delle finanze a definire accordi di cambio con l’obiettivo di imbrigliare la forza del dollaro. Sarebbe riproponibile oggi? Può apparire fantasia, eppure le nuove emergenze del mondo post-globale, come l’ultimo Rapporto del Centro Einaudi ha definito il nostro tempo, lo possono rendere improvvisamente plausibile.