Intervista a Gian Franco Traverso Guicciardi, responsabile della Ricerca di Banca Finnat
Come interpretano gli operatori di mercato questo momento? E quale consiglio danno per investire? Ecco lo scenario spiegato da un esperto
Tempi duri per i gestori del denaro e per i poveri risparmiatori. Ubriachi per le performance stellari del 2021, con l’inizio di questo anno i mercati si sono svegliati in un’altra realtà. Che diventa con il passare dei mesi e il cumularsi degli eventi tutt’altro che rosea. C’è innanzitutto il ritorno in grande stile dell’inflazione, c’è la guerra che mette in pericolo la ripresa economica, ci sono i tassi in risalita. Un rebus, un rompicapo muoversi tra questi scogli senza schiantarsi. Come è cambiato il clima tra gli operatori, e quali consigli ai naviganti si possono dare?
«Quanto all’inflazione i mercati oramai l’hanno scontata», dice Gian Franco Traverso Guicciardi, responsabile della Ricerca di Banca Finnat. «Si è capito che si tratta di un’inflazione strutturale e non temporanea, e che essendo un’inflazione da offerta e non domanda, sarà molto più difficile da aggredire con una politica monetaria restrittiva».
Sulla crescita com’è il sentiment degli operatori?
«Su questo fronte il clima è cambiato radicalmente: all’inizio anno avevamo aspettative di una crescita economica. Non sarebbe stata più intorno al 6 per cento ma intorno al 4, comunque buona. E se pure il comparto obbligazionario, in un contesto di normalizzazione delle politica monetaria, è quello più penalizzato, in un contesto di crescita economica si salverebbe almeno il comparto azionario».
Invece lo scenario è totalmente cambiato.
«Sì. Ma non tanto per la guerra – i mercati sono cinici e le guerre sono ottimi volani di crescita economica perché c’è più spesa pubblica e investimenti in difesa – ma per le sanzioni. Che colpiscono soprattutto l’eurozona per via della pressione sui costi energetici. Lo vediamo dall’andamento dei costi di produzione: negli Usa crescono dell’11 per cento, nell’eurozona del 40, quasi livelli sudamericani. Senza considerare che per gli Usa la Russia è il trentesimo partner commerciale, per noi invece il primo o secondo».
Il mercato vede la recessione probabile?
«La preoccupazione c’è. Dal 4,2, la crescita economica è stata prima ridimensionata al 2,8 e adesso l’Istat dice che con il Pil a meno 0,2 nel primo trimestre, se le cose non peggiorano finiamo l’anno al più 2,2. La stima di Confindustria invece è 1,9. Poi c’è il Documento di Economia e Finanza presentato dal governo alle Camere: afferma che, se vengono meno gli approvvigionamenti di gas russo, anche con la diversificazione delle fonti tentata dal governo ci sarà una carenza di gas del 18 per cento quest’anno e del 15 nel 2023. Con il rischio quindi che si vadano a interrompere le forniture di energia elettrica alle attività industriali. Questo ridurrebbe già nel 2022 la crescita del Pil allo 0,6 e nel ’23 allo 0,4. Se così fosse, vuol dire che nel secondo semestre del ’22 il Pil cade del 2,5 per cento. Quindi, è recessione».
Eppure le turbolenze dei mercati non risparmiano anche gli Usa, dove la recessione non si ipotizza.
«La crescita americana è destinata a rimanere forte, anche se con un certo rallentamento. Ma la Fed, con la restrizione monetaria che ha imboccato, rischia di fare male al comparto azionario americano. Quando gli Usa hanno il raffreddore, noi in Europa prendiamo la polmonite. Perché anche qui abbiamo necessità di intervenire sui tassi. Il problema è che il contesto macroeconomico non è così forte come quello americano, quindi i banchieri di Francoforte sono più titubanti a farlo. Uno scenario di inflazione e di recessione, cioè la stagflazione, è il peggiore possibile per il mercato azionario».
Che consiglio si sente di dare?
«Si dice di solito di non lasciare i soldi liquidi sul conto corrente perché verrebbero mangiati dall’inflazione. In questa situazione, però, la liquidità è una asset class. Con i tassi in aumento l’obbligazionario è perdente. Se vado sull’azionario perdo lo stesso e non mi protegge dall’inflazione. Ecco perché il cash è un’asset class. Solo dopo che saranno stati scontati tutti i fattori negativi, si potrà tornare sul mercato azionario».
Chi invece ha già investito sull’azionario deve tenere i nervi saldi e stare fermo?
«Gli investitori devono avere il coraggio di vendere ai primi segnali negativi, perché se si aspetta troppo tutto diventa più difficile. Quando prende piede un trend ribassista, non si vende nella fase di esasperazione, perché è in quel momento che si dovrebbe comprare. Si vende invece alle prime avvisaglie: se perdi il 10 per cento lo recuperi in fretta, se perdi il 50 è più difficile».
A meno di un cambiamento, anche il 2023 è compromesso?
«Sì, rischia di essere un biennio difficile. Guardiamo al divario tra il tasso di inflazione CPI e i tassi della Fed: anche se i tassi Fed dovessero essere alzati sette volte nel ’22, tra lo 0,50 e lo 0,75 ogni volta, non si raggiungerebbe il valore del tasso di inflazione CPI. Questo vuol dire che il percorso della politica monetaria della Fed nel 2022 non sarebbe affatto restrittivo. Lo diventerebbe solo nel 2023. Ma vedere un aumento dei tassi dallo 0,25 al 7 per cento di qui al ’23, danni sull’economia ne farà comunque. Quindi abbiamo di fronte un biennio sfidante».