intervista ad Andrea Medri, fondatore e CFO di The Rock Trading
Il boom delle criptovalute - e i sospetti che abbiano un ruolo nella guerra - visti dal Cfo della maggiore piattaforma di trading italiana. Il quale spiega i nuovi obblighi di trasparenza che arriveranno a maggio nel settore. E il crescente interesse delle banche tradizionali su bitcoin&C come prodotto finanziario
Dall’inizio della guerra in Ucraina le criptovalute sono diventate sorvegliate speciali. Si teme che possano essere loro a beffare l’Occidente e le sue sanzioni, aiutando la Russia ad aggirare l’isolamento imposto al suo sistema finanziario. Così, tutte le piattaforme di trading sono state messe in allarme: «Ci hanno chiesto la massima attenzione sulle movimentazioni, non solo di una lista di nominativi, ma in generale dell’ambiente russo. Ma a noi non sembra che stia accadendo niente di importante sulla blockchain», afferma Andrea Medri, fondatore e CFO di The Rock Trading, la maggiore piattaforma di acquisto di criptovalute in Italia.
Eppure, dal 24 febbraio, il volume delle compravendite di Bitcoin sono quadruplicati, da 65 al giorno a 255 con picchi di 500 e così pure per altre cripto.
«In questo periodo c’è stata speculazione, ed era prevedibile. Nei momenti di tensione il bitcoin è considerato un bene rifugio come il franco svizzero. Ma di qui a pensare che si può convertire un sistema finanziario complesso dall’oggi al domani, ce ne corre. Anche perché ci dovrebbe essere dall’altra parte qualcuno che accetta lo scambio. E non c’è. Per citare il film “Amici miei” direi: attenti alla supercazzola. Quanto agli oligarchi, è logico che per diversificare gli investimenti abbiano già da tempo puntato sulle criptovalute. Ma anche qui non ci sono segnali anomali sulla blockchain. Resta però interessante monitorare quello che fanno le persone normali. Sia in Russia che in Ucraina la popolazione che ha familiarità con le criptovalute è il 10 per cento».
Più alta che altrove?
«Sì. Accade ovunque c’è una dittatura: una valuta transnazionale, non controllabile, attira. In quei paesi, poi, dove ora è più difficile l’accesso al bancomat, il bitcoin potrebbe tornare alla sua vocazione originaria di strumento di pagamento. Vocazione che ha perso per diventare un asset class alternativo».
Anche da noi si stanno diffondendo le carte di credito in bitcoin.
«Sono iniziative di marketing: carte bitcoin che al momento del pagamento convertono la cifra in euro. Quello che invece può crescere – e noi lo stiamo facendo con una società all’interno del nostro stesso consorzio che si chiama Tinkl.it – è l’uso delle criptovalute per il pagamento delle rimesse transnazionali. Se io esporto in un paese dove c’è difficoltà di reperire valuta pregiata – succede in 130 paesi al mondo sui 190 esistenti – il cliente che mi vuole pagare può utilizzare il bitcoin come valuta alternativa».
Vuol dire che le criptovalute sono sempre di meno un fenomeno di élite o di smanettoni del web?
«Esatto. E nei prossimi due anni la crescita sarà sorprendente. Questo perché le banche tradizionali, a livello globale e nazionale, quelle che all’inizio vedevano il fenomeno bitcoin come un pericolo, ora hanno capito che è un’opportunità anche per loro. E si muoveranno per offrire alla loro clientela la possibilità di acquistare e vendere bitcoin e altre criptovalute. Questo porterà il settore a uscire dalla nicchia».
Il ruolo di guardiani del mercato che viene attribuito alle piattaforme come la vostra è già un bel riconoscimento…
«Noi siamo un collettore, un punto di controllo importante: siamo obbligati a seguire la normativa antiriciclaggio e, prima o poi, l’investimento in criptovaluta deve rientrare in fiat, euro o dollari».
Ma davvero il mondo delle criptovalute è tutto controllabile?
«Le piattaforme globali ubicate in paesi offshore sono di difficile monitoraggio. Ma attenzione, le leggi ci sono, il problema è applicarle. Un esempio? Quasi tutte queste piattaforme offrono prodotti finanziari per i quali sarebbero necessarie delle licenze. Se non hanno la licenza per farlo, spetta all’autorità di vigilanza di intervenire e bloccare. Ultimamente c’è maggiore attenzione. Un punto di svolta sarà a maggio».
Che cosa succede a maggio?
«Scatta per tutte le piattaforme l’obbligo di registrarsi all’Oam, il registro dei cambia valute della Banca d’Italia, come noi abbiamo dovuto fare dal 2017, per una legge del governo Gentiloni che ha anticipato la direttiva europea sull’antiriciclaggio. Purtroppo, come spesso capita in Italia, alla legge non sono seguiti i decreti attuativi, quindi noi operatori siamo rimasti con l’onere di anticipare la normativa antiriciclaggio che i nostri concorrenti europei non avevano. Adesso le condizioni dovranno allinearsi. Le piattaforme straniere che offrono servizi agli italiani dovranno avere una sede in Italia, e fare un report semestrale dei flussi delle movimentazioni. A questo punto la norma c’è, gli obblighi precisi per evitare tentativi di elusione pure, e sarà interessante vedere se tutte le piattaforme, soprattutto quelle offshore, si registreranno. E se le autorità di vigilanza si muoveranno per far rispettare la norma…».
L’obbligo di registrazione potrebbe far desistere qualcuno dei vostri concorrenti?
«Il problema è che a questi concorrenti, se non rispettano le regole, puoi dare delle sanzioni, ma la sanzione va notificata per legge: e dove si consegna se non c’è un indirizzo? L’unica minaccia è di offuscare il sito. Tutte le altre autorità di vigilanza alzerebbero le antenne, e ci sarebbe un danno reputazionale. Ma Banca d’Italia non ha il potere di offuscare, ce l’ha la Consob. Però la norma rientra sotto Banca d’Italia».
Da pochi giorni avete lanciato, con l’associazione Criptovalues, il fixing del bitcoin. A che cosa serve?
«Il nostro mercato è aperto 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno, non chiude mai. Quindi non c’è un fixing, una chiusura. Da qui idea di creare un fixing credibile con un’associazione superpartes come Criprovalues, nata per fare formazione e dialogare con le autorità a livello nazionale ed europeo. Abbiamo individuato sei piattaforme che lavorano in un contesto giuridico accettabile (non sono offshore né nel black list market), che abbiano uno standard di compliance antiriciclaggio adeguato, e abbiamo scelto il bitcoin: ogni giorno a mezzanotte viene rilevato il prezzo medio tra queste sei piattaforme, escludendo il prezzo maggiore e quello inferiore, si fa la media ponderata e si pubblica alle 3 del mattino. Perché è utile? Le società finanziarie tradizionali che arrivano nel nostro mondo, se emettono un bond o un altro prodotto finanziario, devono calcolare il Nav. E dove lo prendono? Con il fixing, riconducibile a una fonte attendibile che diventa lo standard per l’industria, il problema è risolto. Dopo il bitcoin passeremo a ethereum e pian pianino andremo ad aggiungere le coin principali».
Per essere finanza alternativa, vi state modellando su quella tradizionale, però.
«Indubbiamente sì. La finanza tradizionale sta entrando nel nostro mondo, e siamo noi che dobbiamo trovare soluzioni alle problematiche che loro presentano».
C’è chi sostiene che il bitcoin sia una alternativa all’oro come riserva di valore. Che ne pensa?
«Il bitcoin viene reputato un asset class alternativo. E anche un bene rifugio. È vero che ha una volatilità estrema: è partito a pochi dollari, vale oggi circa 40 mila euro. Ma ha una storia di almeno una quindicina di eventi catastrofici che avrebbero disintegrato qualsiasi altro tipo di asset tradizionale, con crolli dal 30 all’86 per cento. È stato spesso dichiarato morto. Eppure il trend è sempre stato in crescita. Certo, è un investimento ad alto rischio, ma un cip può avere senso investirlo. È un ragionamento basato sulla logica: di bitcoin ce ne sono 21 milioni in totale, di cui 19 già stati emessi; di questi supponiamo che il 20/30 per cento siano stati persi su chiavi non più recuperabili; il milione del fondatore Satoshi Nakamoto non si muove e non si muoverà mai. Quindi è un bene scarso. Se nei prossimi anni gli intermediari finanziari lo presenteranno e daranno a tutti l’opportunità di entrare, la domanda aumenterà e il prezzo può solo salire. Ma non è una garanzia…».
Come si compra attraverso una piattaforma come The Rock Trading?
«Si apre un conto presso la piattaforma con un bonifico, e dopo le verifiche antiriciclaggio si decide la strategia d’acquisto».
E dove si depositano i bitcoin?
«Tecnicamente presso di noi, ma non ci sarebbe bisogno di un custode terzo che gestisce i fondi. Se uno ha un po’ di pazienza e studia la tecnologia, capisce che non ne ha bisogno: li tieni tu con le tue chiavi di accesso private. Per chi pensa che sia difficile, ci sono i custodi di wallets che fanno la custodia. Ma sono sistemi che vanno contro la filosofia del bitcoin».
Qual è il trattamento fiscale?
«Manca ancora una legge. Ci si muove sulla base di una sentenza del Tar e di interpelli dell’Agenzia delle Entrate. Sono indicazioni che tassano le plusvalenze bitcoin al 26 per cento come i capital gain. Ma sono solo indicazioni: possono essere portate in tribunale e rovesciate».
Lei come è arrivato a questo mondo?
«Nel 2007 ero incuriosito da Second Life, una sorta di metaverso popolato da avatar: mi attirava non tanto la dimensione social, quanto l’idea di un ecosistema libertario. Lì conobbi il mio socio, Davide Barbieri, il cervello informatico della società. Cominciammo un role game, e per gioco aprimmo The Rock Insurance Company, per assicurare i depositi bancari su Second Life, poi passammo alla Borsa: The Rock Trading Company. Nel 2010 Davide mi parlò per la prima volta dei bitcoin. Il primo trading che abbiamo fatto fu a giugno 2011, in cui permettemmo il cambio dai Linden dollars, la moneta virtuale di Second Life, in bitcoin. Nel 2013 ci siamo resi conto che il gioco era diventato qualcosa di interessante, e ci siamo trovati a un bivio: andare offshore, come molti altri che sono diventati miliardari, oppure cercare di costruire un’industria in Europa perché credevamo nel potenziale. La nostra prima società è nata a Malta, solo perché c’era l’unica banca che ci aprì un conto. Nel 2017 trasferimmo tutta l’operatività in Italia».
A quanto ammonta il vostro trading annuale?
«Un miliardo di euro. Siamo una piccola piattaforma. Le grandissime piattaforme globali fanno in un giorno 10 volte quello che noi facciamo in un anno. Ma in Italia siamo i primi, anche se non per numero di utenti: ci rivolgiamo a una clientela qualificata, il cliente tipo va dai 30 a 60 anni, incline a investire somme discrete».
Qual è l’investimento medio?
«Facciamo parecchia operatività di clienti importanti, che vogliono di questi tempi rientrare in euro, con somme dai 500 mila ai 10 milioni di euro. Il cliente tipo fa un bonifico medio dai 500 euro ai 10 mila euro. È un cliente preparato, di cultura alta, il che è meglio perché fa presupporre conoscenza del rischio».