Analisi dell’attualità della guerra in Ucraina con l'obiettivo di capire che cosa possiamo aspettarci in futuro da Putin. Partendo sia dalle sue mosse precedenti e dalle sue motivazioni che dalle conseguenze che possiamo attenderci. Chiedendoci innanzitutto “a chi giova” e come
Di un tema talmente drammatico e così rilevante come l’invasione russa dell’Ucraina parlano tutti i giorni tutti i media. E la domanda che ritorna, di solito esplicitamente, ma anche implicitamente, è: perché? A cui si può aggiungere: perché ora? Di solito, nella ricerca della risposta si risale o, meglio, si pretende di risalire alle intenzioni di Putin.
La necessità di ricostruire le intenzioni di un attore di politica internazionale o anche di politica interna è stata in passato e per diversi anni al centro del dibattito epistemologico e anche metodologico nelle scienze sociali. Semplificando quel dibattito, iniziato anche prima di Weber, quando studiamo un certo fenomeno, dobbiamo cercare di capire come un attore – nella maggioranza dei casi, consapevole di ciò che pensa, sente, dice e fa – intende quello che sta facendo. In questo senso, lo studioso deve mettersi in grado di guardare la realtà studiata dal punto di vista degli attori.
Ma come lo si fa concretamente quando analizziamo l’attualità e, in realtà, il nostro obiettivo è anche capire che cosa possiamo aspettarci in futuro da quell’attore? Osservazioni ed esperienze di ricerche spingono ad analizzare sia le azioni precedenti che le conseguenze attese dell’azione su cui si focalizza la nostra attenzione, chiedendoci “a chi giova” e come.
Nel caso specifico, quindi, dobbiamo ricordare che sin dall’inizio, ovvero dal 1999, Putin si è mosso in alcune direzioni tutte per noi rilevanti: riportare ordine e sicurezza all’interno del paese stabilizzando un regime autoritario con un partito egemonico (Russia Unita); riproporre un’ideologia nazionalista, l’unica possibile per mobilitare il sostegno dei russi al regime, con soluzioni istituzionali originali; pur dopo qualche incertezza, tornare a una centralizzazione amministrativa e politica del paese; ma anche proporre il proprio modello politico, il presidenzialismo autoritario, come l’unico possibile per i paesi confinanti; e, soprattutto, ricreare qualcosa di simile all’ex-URSS in chiave economica, creando un ampio mercato unico attraverso la rivitalizzazione della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), costituita inizialmente da Bielorussia, Russia e Ucraina, con l’Accordo di Belaveža (dicembre 1991), a cui poi aderiscono diversi stati ex-URSS, tutti piccoli o molti piccoli in termini di popolazione (Armenia, Azerbaigian, Georgia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan).
Una CSI effettiva e funzionante di circa 300 milioni di abitanti (la metà russi), di cui doveva essere una parte importante l’Ucraina con i suoi oltre 40 milioni di abitanti, avrebbe costituito una buona alternativa all’entrata di fatto nell’orbita dell’Unione Europea. Ma senza l’Ucraina, che già nel 2014 ha cominciato a farsi da parte, anche firmando l’Accordo di Associazione con l’Unione europea (21 marzo), in prospettiva di adesione – come dichiarato dal presidente Poroshenko al momento della firma –, poi ratificato nel 2017, quel progetto sarebbe rimasto asfittico e schiacciato dal mercato unico europeo con i suoi 500 milioni di abitanti. Proprio in quel 2014, peraltro, vi era stata subito la reazione russa con la richiesta del parlamento della Crimea di aderire alla federazione russa (4 marzo), il referendum di indipendenza (16 marzo) e l’inizio della guerra del Donbass, il 6 aprile.
All’inizio del 2022 siamo, dunque, in una situazione di fallimento di un progetto nazionalista ed economico che avrebbe dovuto e potuto compensare altri fallimenti economici interni in termini di infrastrutture e industrializzazione. Evitare quel fallimento sarebbe la motivazione razionalizzabile dell’invasione, preparata da tempo come mostrano sia gli investimenti nelle forze armate sia le politiche economiche internazionali di creazione di riserve monetarie e basso indebitamento?
Come ricordato all’inizio, la risposta a questa domanda può essere trovata solo facendo un ulteriore esame, cioè pensando anche alle conseguenze del successo dell’invasione. Principalmente due. La prima sarebbe stata finalmente l’attuazione del progetto economico nazionalista con il ritorno alle antiche glorie per l’aggiunta di un paese essenziale per il successo del progetto economico, come l’Ucraina, anche con la crescita del sostegno interno al regime, un aspetto sempre importante per un regime autoritario contemporaneo.
La seconda: la formazione di un governo controllato dal Cremlino avrebbe fermato le tendenze centrifughe già evidenziate in modi diversi sia in Georgia, che nel Kazakistan e in Bielorussia, che se avessero avute successo avrebbero fatto saltare quel progetto di espansione nazionalista, non più in grado di fermare le spinte alla democratizzazione, causate proprio dall’evoluzione politica dell’Ucraina verso una democrazia liberale.
Dunque, esaminare anche le conseguenze conferma l’analisi precedente e le motivazioni indicate sopra. Ma rimane la domanda: perché ora, e non prima, ad esempio nel 2018 quando l’Ucraina aveva lasciato definitivamente la CSI. L’ipotesi più plausibile è che Putin abbia visto proprio ora una rilevante crescita delle probabilità di successo, ancora per due ragioni. La prima riguarda l’attenuazione della presenza americana in questo emisfero, sia per la continuazione della politica di ritiro iniziata in questi anni da Obama e continuata da Trump e da Biden, sia in Afganistan che nel Medio Oriente, sia per il maggiore impegno in Asia nel contrasto con la Cina, diventata così un’alleata anche oggettiva (ma prudente) della Russia. La seconda, più contingente, è connessa alla ripresa dopo la pandemia che rende le economie europee ancora più dipendenti dal gas russo, senza il quale la necessaria ripresa svanirebbe.
In breve, sembra che Putin abbia ritenuto di trovarsi di fronte a una congiuntura di indebolimento oggettivo delle democrazie occidentali, dovuta a due occasioni che si rinforzavano l’un l’altra, forse irripetibili. Una congiuntura da cogliere subito, prima che passasse. Un calcolo corretto? Un rischio ben calcolato? Al di là di tutto, la partita è aperta. E, se non ci fossero tante morti, sofferenze, una tragedia umana di ampie proporzioni, ulteriori rischi drammatici per tutti, si potrebbe assistere con distacco alla fine della partita. A questo va aggiunto, anche se in politica conta meno, il giudizio morale di condanna totale che rende inaccettabili le politiche di sopraffazione, qualunque siano le motivazioni e la nostra capacità di capirle, senza in alcun modo giustificarle.