MILAN FINTECH SUMMIT
Come il venture capital può aiutare il fintech

L'ecosistema dell’innovazione, in Italia, ha un problema fondamentale: l’accesso al capitale. Soprattutto nel "late stage", cioè nelle fasi finali della crescita delle startup, quando c’è necessità di cifre  superiori ai 6-7 milioni di euro. Un esperto spiega che cosa si può fare per non lasciare le startup a metà del guado

Giuseppe Donvito

In Italia abbiamo eccellenti startupper che hanno già dato vita a società con modelli di business solidi e con ampia capacità di fare disruption in settori consolidati. Iniziamo ad avere delle società con potenzialità da unicorno, che attraggono anche capitali internazionali. Per esempio nel portfolio di P101 SGR, uno dei principali gestori di fondi di venture capital in Italia, Casavo e Opyn hanno intrapreso un percorso di crescita che le ha portate a valutazioni rilevanti.

C’è un ecosistema del VC che sta crescendo, eccellente capitale umano, idee, ma siamo almeno cinque anni indietro rispetto alla Francia (per non dire ad UK) in termini di maturità del mercato. E questo si vede dai numeri: nonostante la crescita che dal 2018 è diventata esponenziale per i finanziamenti del VC, siamo sempre nell’ordine di un miliardo (proiezioni 2021) contro i 2,5 della Germania e i 4 della Francia. Il paragone con il contesto britannico sarebbe impietoso anche per i mercati core dell’Europa. 

E se molto è stato fatto per spingere le aziende verso i capitali di Borsa (per esempio con la costituzione del mercato alternativo per le piccole imprese ad alto potenziale, l’Aim), il tema del VC è ancora sottotraccia. In un ecosistema completo (come quello US) tutte le fasi del capitale di rischio (dall’angel investment, al seed, fino agli investimenti early e late stage) devono coesistere e culminare, al fine di garantire una exit al VC, in una IPO o in un generico M&A. Il concetto è ancora più stringente per il fintech.

Ogni anello della catena del valore deve essere al posto giusto per evitare che la startup si trovi a metà del guado in un percorso di crescita e che gli investitori nelle singole fasi di investimento non trovino favorevole entrare in uno specifico segmento del VC financing. I late stage investor, ad esempio, devono trovare opportunità di investimento già sostenute dagli investitori early stage ma devono anche sapere che vi sarà una possibile realizzazione dell’investimento in una fase successiva, incluso un mercato IPO recettivo e liquido. 

Che cosa manca ancora in Italia

Abbiamo tutto ciò che serve per spingere l’innovazione in Italia? I finanziamenti da soli non bastano. Ci sono decine di altre questioni da mettere a punto, legate alla burocrazia, all’amministrazione della giustizia, alle regolamentazioni, all’approccio culturale. C’è da dire che il VC in Italia è ripartito da meno di dieci anni e questo spiega in parte il divario di valore rispetto alla Francia – in cui il nostro settore è stato spinto dall’alto con diversi interventi mirati in una politica sistemica – ma anche della Germania. 

Per colmare il gap nella catena del valore, molto si può fare in termini di spinta governativa e molto è stato già fatto dagli attori, soprattutto sulla parte seed (anche se ancora manca qualcosa). Lato VC, il vero assente è il late stage: ci sono pochi attori in grado di effettuare deal superiori ai 6-7 milioni di equity e quasi nessuno sopra i 10-15 milioni se non operatori esteri. Ovviamente nulla di male a farsi finanziare da operatori non italiani: è un mercato globale, aperto e libero. Ma certamente dobbiamo avere anche player italiani. 

La nostra previsione è che nel giro di un biennio riusciremo a colmare il gap. Ma bisogna agire con forza adesso che stiamo avendo exit importanti, con cash generation di valore. 

Come? Ci sono molteplici fattori da attivare: maggiori semplificazioni sul fronte normativo e fiscale; intensificare l’afflusso di capitali verso le società di gestione di VC, sbloccando ad esempio i denari provenienti dalle assicurazioni, i fondi pensione (vedi come esempio la Francia).

Ma anche sul fronte delle startup si può fare molto (e tanto è stato fatto a dire il vero). I founder devono essere ambiziosi, pensare a livello internazionale, dando vita a imprese che fattivamente risolvano problemi reali, in maniera innovativa e differente rispetto a eventuali competitor. E approccino il VC come partner della crescita effettivo e non fine a se stesso.

È inoltre chiave che vi sia un mercato di Borsa domestico più attivo in termini di IPO e successiva liquidità del titolo, con una maggiore comprensione del fintech (e del tech in generale) da parte dei broker ed equity research. 

Serve un ecosistema intorno al capitale privato ma anche pubblico: quest’ultimo, in particolare, deve comprendere che il suo ruolo deve essere pro-attivo e non invasivo. 

Team, business model o mercato?

Quanto alle startup fintech, il management team e i founders sono l’elemento chiave per un VC. Dando per scontato che la matrice business model-mercato sia valida, la nostra esperienza ci dice che se il management ha una serie di caratteristiche quali la capacità di reazione agli imprevisti, la resilienza, l’apertura all’ascolto e al dialogo, l’ambizione “risk-adjusted”, ci sono gli elementi giusti affinché’ il VC investa e la società intraprenda un percorso di successo verso l’exit.

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