La Fed resta ottimista e si prepara a ridurre i suoi acquisti di titoli, ma rinvia a novembre la decisione sul quanto. E le altre banche centrali? Ecco che cosa hanno deciso e come si muoveranno
La lunga rincorsa delle banche centrali ad ingrossare i loro bilanci, ovvero ad acquistare a mani basse titoli dei rispettivi Paesi, è finita. E parallelamente si avvia a conclusione la seconda gamba del cosiddetto “New normal”, ovvero i tassi a zero.
Da un punto all’altro del pianeta è questa la direzione per tentare di uscire dalla crisi pandemica, la più grave almeno da un secolo a questa parte. Una direzione intrapresa fra mille distinguo, con dozzine di paletti, precauzioni, incertezze, vie di fuga (cioè di ritorno indietro). Dalla Fed alla Bce, passando dalla Bank of England e finendo alla Banca del Giappone, è questo il messaggio dell’autunno 2021.
Certo, non sarà un passaggio immediato. Però sarà necessario, «se non altro – come spiega Claudio Borio, capo economista della Bri di Basilea, la banca centrale delle banche centrali – per riconquistare margini di manovra in previsioni di future recessioni, che inevitabilmente arriveranno anche se non sappiamo quando».
Vediamo le rispettive gradualità, con la premessa che questa settimana si sono anche riunite molte banche centrali “minori” (Svizzera, Norvegia, Filippine, Sudafrica), tutte tendenti a tenere i tassi bassi con l’eccezione del Brasile che li ha rialzati di un 1% secco (ma l’inflazione è al 9%).
Federal Reserve. Dopo la riunione di questa settimana del Federal Open Market Committee, la banca centrale Usa ha assicurato che in novembre si saprà la misura, ma di certo il livello del quantitative easing si abbasserà rispetto ai 120 miliardi di dollari di acquisti attuali (per l’80% titoli di Stato, per il 20% obbligazioni relative ai mutui casa).
La fase più acuta dell’emergenza sanitaria, assicura la Fed, è passata, la crescita del Pil a fine anno sarà intorno al 5%, e quindi viene in parte almeno la necessità di assistere l’economia. Un’affermazione che per la verità cozza un po’ contro la realtà degli Stati Uniti, Paese dove la variante Delta continua a fare più di mille morti al giorno e la popolazione è al 46% non vaccinata. La Federal Reserve però mantiene le sue previsioni favorevoli anche se leggermente ridimensionate (proprio per la recrudescenza pandemica), esplicitate in un nuovo documento di sintesi delle proiezioni economiche approvato sempre mercoledì.
Nel documento la stima media per la crescita del PIL reale nel 2021 è stata abbassata al 5,9% (contro il 7,0% di giugno), mentre il tasso nel 2022 è stato aumentato al 3,8% (contro il 3,3% precedente). La media dell’inflazione del 2021 è stata rivista al 3,7%, e le medie del 2022 e 2023 sono aumentate di 0,2-0,1 punti percentuali, rispettivamente al 2,3% e al 2,2%.
Oggi l’inflazione è al 4,2%, e tale livello manterrà almeno fino al primo trimestre 2022: come si vede è ben superiore al celebre 2% che era il riferimento di base anche della Bce dopo il quale alzare i tassi. Ma come Jay Powell, capo della Fed, ha ripetutamente ribadito, l’ultima volta a Jackson Hole il mese scorso, quello doveva intendersi come media fra i tanti anni in cui l’inflazione era rimasta a zero e gli anni successivi di rimbalzo. Comunque, ora ci siamo e la Fed per la prima volta si è spinta a precisare gli aumenti dei tassi: 0,25% per il 2022 e un ulteriore 1,0% per il 2023, e poi ancora uno 0,75% l’anno successivo.
Sono previsioni non vincolanti, e del resto non sarebbe la prima volta che la Fed si comporta in modo diverso da quanto assicurato, magari non per sua colpa ma per eventi improvvisi: gli economisti di buona memoria hanno ricordato quando nell’ottobre 2018 Powell aveva detto che l’anno successivo ci sarebbero stati quattro rialzi dei tassi (sempre di 0,25) mentre invece nel 2019 ci furono tre tagli consecutivi. Poi è successo quello che è successo.
Bce. Anche a Francoforte si preparano, con ancora maggior cautela, al “tapering”. Che però riguarderà da subito gli acquisti a valere sul fondo speciale Pepp (Pandemic Emergency Purchase Programme) di cui non viene specificato l’ammontare mensile ma solo il totale in dotazione, che era all’inizio (primavera 2020) di 1350 miliardi di euro, da utilizzare per intero entro il marzo 2022.
Il “vecchio” quantitative easing per ora non si tocca, ma bisogna dire che ormai si è ridotto a 20 miliardi al mese. Per i tassi, se ne parlerà nell’ultima riunione dell’anno in dicembre, ma l’orientamento ormai accertato sembra essere quello di cominciare gradualmente ad alzarli intorno alla fine del 2022. Del resto l’inflazione in Europa è “in ritardo” rispetto a quella americana, ed è stata appena superata nella media dell’area euro la fatidica soglia del 2% (in Italia è ancora più bassa).
Bank of Japan. Mercoledì 22 settembre si sono riuniti anche gli organismi direttivi dell’istituto centrale di Tokyo, rilasciando un outlook molto preoccupato per gli sviluppi della pandemia (che in Giappone è rampante) e per le ricadute economiche. Anche lì il quantitative easing va avanti senza limiti di sicuro fino al marzo 2022, poi si vedrà. Oggi vengono ogni mese acquistati titoli vari: 1200 miliardi di yen al mese (pari a 9,3 miliardi di euro) in Etf quotati, più altri 180 miliardi di yen del Real estate investment trust e infine – la fetta più consistente – 20mila miliardi di yen fra commercial paper e corporate bond. Un totale quindi che si avvicina anche in questo caso ai 20 miliardi di euro.
La previsione di crescita è del 3,8% quest’ano, del 2,7% nel 2022 e dell’1,3% l’anno successivo. L’inflazione è in lenta crescita e dovrebbe arrivare allo 0,6% quest’anno per poi salire allo 0,9 nel 2022 e arrivare all’1% nel 2023. Com’è facilmente prevedibile, i tassi restano a livello terra, addirittura al – 0,1 % il tasso di riferimento a breve termine, mantenendo l’obiettivo di portare quello sui buoni del Tesoro decennali allo 0%.
Bank of England. Anche Londra è molto preoccupata per il revival del Covid, ma non solo: nel comunicare che i tassi restano invariati, in questo caso allo 0,1%, la banca non ha mancato di ricordare le conseguenze negative della Brexit, molte delle quali ancora da vedersi. La novità più importante è stata l’annuncio dell’avvio nel quarto trimestre, cioè dalla prossima settimana, di consultazioni sull’opportunità di portare sotto lo zero i tassi di riferimento.
La riunione di ieri, 23 settembre, che ha chiuso la settimana delle banche centrali, ha poi confermato il qe nell’attuale quantitativo finale (la banca non rende noti gli acquisti mese per mese) di 840 miliardi di sterline. Dalla riunione è emerso un ridimensionamento delle aspettative di crescita del terzo trimestre 2021 a non più del 2,1%, con un taglio di ben lo 0,8 dalle previsioni precedenti. In rialzo invece l’inflazione che ormai sfiora il 4%.