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Di cosa parliamo quando parliamo di fintech

Dal Quaderno di Minerva Bancaria n.1/2021 pubblichiamo un estratto di “La Consulenza Digitalizzata”, di Raffaele Lener

Una guida del mondo dell'offerta telematica dei servizi finanziari, che non è più esclusiva di banche e intermediari finanziari ma aperta a operatori industriali. I cambiamenti sono così significativi che le tradizionali tecniche legislative devono cedere il passo a soft law o altri strumenti più flessibili

Raffaele Lener
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1. Premessa

Sono una decina di anni che anche in Italia la scienza giuseconomica si interroga sull’eterogeno fenomeno del Fintech. Tuttavia non c’è, e forse non ha neppure senso cercarla, una definizione universalmente riconosciuta del fenomeno, idonea a racchiudere in sé le variegate modalità in cui esso si manifesta. Ci dobbiamo accontentare di una mera esegesi letterale della locuzione, che peraltro si limita a indicare la sussistenza di un collegamento applicativo-funzionale tra tecnologia (Tech) e finanza (Fin). 

In realtà il Fintech è per sua natura fenomeno in continua evoluzione, non racchiudibile in un contenitore e non definibile in modo statico.

Questo fenomeno rappresenta, infatti, lo sviluppo e il progredire di ‘metodologie’ con le quali si costruiscono e si offrono al pubblico servizi finanziari. 

L’area dei servizi finanziari si è invero dimostrata particolarmente fertile per le nuovissime tecnologie; sono infatti pochi i servizi che non si sono “evoluti” in senso tecnologico; anche quelli in cui l’attività intellettuale umana e il contatto personale erano tradizionalmente ritenuti essenziali hanno subito fortissimi cambiamenti.

Si pensi alla nascita dei primi “consulenti robot”, i c.d. robo-advisor, o allo sviluppo su scala sempre più ampia di piattaforme che, grazie alla rete internet, facilitano l’incontro di imprese e finanziatori, dando vita alle varie fattispecie di “crowdfunding”.

Proprio i fenomeni collegati al crowdfunding costituiscono esempio paradigmatico Nel giro di poco più di cinque anni, grazie all’avvento della tecnologia della blockchain, questi sono riusciti ad evolversi così tanto che si ha l’impressione di non riuscire a comprenderli con sufficiente rapidità da poterli regolare prima che diventino obsoleti. È infatti già possibile constatare che nel momento in cui, ad esempio, si è riusciti a regolare in modo che si pensava “definitivo” l’equity crowdfunding, questo già si mostra in via di superamento.

Fenomeni siffatti portano a cambiamenti così rapidi che anche le tradizionali tecniche legislative, pur ove basate su una normativa primaria “di principi” integrata da una articolata regolamentazione secondaria attuativa – come nel sistema del Testo unico del 1998 – non possono che cedere il passo a soft law o altri strumenti, come le regulatory sandboxes, sufficientemente flessibili da permettere anche al legislatore di stare al passo con i tempi.

A prescindere dalle difficoltà di “confinamento” e regolazione del fenomeno, il rapporto tra tecnologia e finanza è ben più risalente rispetto a quanto si tende a credere. Già nel 1967, con l’introduzione degli ATM (Automatic Teller Machine), si sono cominciati a vedere i possibili sviluppi dell’integrazione tra automazione e finanza. Ai commentatori del tempo la disintermediazione “umana” delle operazioni di prelievo contante suscitò interrogativi molto simili a quelli che oggi pongono fenomeni quali le cripto-valute o il robo-advice.

Oggi ci sono studiosi che provano a ricostruire ex post, in modo inevitabilmente arbitrario, una sorta di percorso evolutivo della tecnologia applicata all’industria finanziaria, distinguendo fra una fase caratterizzata ancora da un approccio “di tipo analogico”, in cui si ricorre a tecnologie elementari di comunicazione quali il telegrafo o il telefono (1866-1967), una fase successiva, che inizia appunto con i ricordati primi ATM, nella quale si sviluppa una sempre maggiore integrazione dei servizi bancari e finanziari con il mezzo informatico-telematico (1967-2008), e infine il periodo contemporaneo, in cui la prestazione “telematica” di servizi finanziari non è più esclusiva di banche e intermediari del settore, ma è aperta a operatori  industriali, sino a poco tempo fa ritenuti estranei al mercato finanziario, quali Google o Amazon ad esempio, che riescono a entrare in mercati caratterizzati in principio dalla riserva di attività a favore di soggetti vigilati e iscritti a un albo grazie a nuovi paradigmi tecnologici.

Questo ingresso incontrollato indubbiamente preoccupa, ma nella dottrina, principalmente angloamericana, non manca chi parla, al riguardo, di un processo di “democratizzazione” dell’offerta di servizi creditizi e di investimento, individuando proprio in questa apertura del mercato derivante dal Fintech una risposta alla crisi finanziaria del 2008.

2. I c.d. Big Data.

Elemento fondamentale della “rivoluzione digitale” è certamente l’acquisizione, l’elaborazione e l’utilizzazione di dati. Non a caso i dati sono ormai considerati come un nuovo fattore di produzione, da aggiungersi ai tradizionali fattori del capitale e della forza lavoro, o forse, ancor di più, come l’unità fondamentale della nuova economia, per l’appunto definita data-driven, in cui si rende necessario bilanciare i diversi interessi dell’innovazione e dello sviluppo tecnologico, con la stabilità finanziaria e la protezione dei consumatori. 

È di tutta evidenza come la disponibilità dei dati sia sempre più rilevante per l’ottimizzazione di processi e decisioni, per l’innovazione e l’efficiente funzionamento dei mercati. Peraltro, chiunque si sia messo ad analizzare l’impatto dell’acquisizione, dell’analisi just in time e della circolazione dei big data nelle imprese Fintech propriamente dette e in quelle non finanziarie non ha potuto non notare criticità dal punto di vista della libera concorrenza tra imprese, recentemente, peraltro, bene messe in luce dalla stessa Autorità garante della concorrenza e del mercato.

3. Blockchain e Distributed Ledger Technologies (DLT).

A detta di molti, la tecnologia blockchain rappresenta l’attuale «cuore pulsante» del fenomeno Fintech. Originariamente connessa al solo protocollo Bitcoin, la Blockchain può descriversi come un registro digitale, pubblico e permanente,oppure come un database distribuito presso gli utilizzatori che installino il software open source, necessario per compiere e registrare in maniera continua tutte le transazioni avvenute tra i partecipanti (detti nodes) del network.

La tecnologia consente di attestare se e quando si è verificato un determinato scambio di valore tra coloro che la utilizzano, dispensando questi ultimi dal ricorso ai tradizionali meccanismi di certificazione utilizzati nei sistemi di pagamento, caratterizzati dalla necessità di un «terzo» garante (in genere, un’autorità centrale legittimata a svolgere la funzione di validazione delle transazioni).

I sistemi DLT utilizzano infatti una struttura tecnologica, ampiamente sperimentata nel mondo delle criptovalute, che mira a costruire una rete per la condivisione di informazioni tramite un registro distribuito (distributed ledger) funzionale a cristallizzare le transazioni tra le parti partecipanti alla rete, in modo definitivo, senza possibilità di una successiva alterazione delle registrazioni. In particolare, i partecipanti alla rete assumono la funzione di nodi della DLT e la circolazione delle informazioni sulle nuove transazioni avviene a mezzo della comunicazione tra i nodi stessi che, nella condivisione virtuale delle informazioni, ne attestano la verità e correttezza, validando la criptoscrittura sulla rete DLT. In altri termini, la validazione della registrazione realizza il controllo condiviso sull’operazione nella rete. 

Il meccanismo descritto assicura, così, la gestione decentralizzata di un database condiviso, affidata non a un’autorità centrale ma ai partecipanti stessi (i c.d. nodi), strutturabile secondo metodologie differenti. Nel caso dei sistemi permissionless, tipici delle criptovalute, la partecipazione alla rete è libera e si ottiene con l’esecuzione di un software dedicato. Nelle reti permission based, più adatte alle attività di negoziazione sui mercati finanziari, la partecipazione alla rete è condizionata al soddisfacimento di requisiti soggettivi e oggettivi imposti dalla regolamentazione dei mercati finanziari.

Il legislatore nazionale è intervenuto di recente, con il c.d. decreto semplificazioni, convertito dalla legge n. 12/2019, in materia di validazione temporale in forma elettronica effettuata attraverso tecnologie basate sui registri distribuiti.

Le nuove norme, intenzionalmente lasciate in forma generica, in realtà non danno contributo decisivo alla soluzione del problema degli effetti giuridici della timestamp attribuito dalla rete e difettano comunque delle necessarie regole tecniche applicative. 

4. DLT e infrastrutture di negoziazione.

Di particolare interesse è la prospettiva di applicazione della distributed ledger technology alla gestione delle infrastrutture di negoziazione, che sembra oggi godere di uno speciale regime di sospensione di regolamentazione.

Il punto centrale nel dibattito interno ed europeo è l’individuazione dei nuovi possibili modelli di gestione delle attività finanziarie che, nel rispetto della sana e prudente gestione, si inseriscano nel quadro delle regole di vigilanza europee improntate ai principi di neutralità, concorrenza e proporzionalità, funzionali alla trasparenza e integrità del mercato finanziario.

Ci si interroga in particolare sulla compatibilità tra struttura tecnologica della DLT e l’organizzazione della funzione di negoziazione e post-trading degli strumenti finanziari; de iure condito, la cornice normativa è assai complessa e l’introduzione della nuova tecnologia potrebbe dar luogo a scenari in diverso grado disruptive,in cui la delocalizzazione delle funzioni e la gestione tramite algoritmi potrebbe portare alla scomparsa di alcuni intermediari che finora sembrano svolgere un ruolo chiave nell’architettura del mercato finanziario.

Le norme che oggi disciplinano l’organizzazione delle infrastrutture sottese alla negoziazione degli strumenti finanziari, anche derivati ruotano attorno alle funzioni della negoziazione e post-trading e sono caratterizzate dalla presenza di soggetti vigilati quali i depositari centrali (CDS), gli intermediari e le controparti centrali (CCP). Ne risulta così una struttura caratterizzata da differenti layers nei quali interagiscono molteplici soggetti al fine di garantire la correttezza del trasferimento degli strumenti finanziari tra i partecipanti al mercato.

In particolare, nel vigente sistema di dematerializzazione dei titoli, la società emittente registra i propri titoli presso un depositario centrale (CDS). Il trasferimento degli strumenti finanziari tra gli investitori avviene per il tramite di intermediari autorizzati, ai sensi della disciplina MiFID, che detengono presso gli stessi depositari centrali appositi conti in cui vengono registrate le singole transazioni effettuate dagli investitori. 

L’organizzazione della funzione di post-trading, declinata nelle due attività distinte di compensazione (clearing) e regolamento finale (settlement), invece,assicura: (i) la verifica, per il tramite delle controparti centrali (CCP), della correttezza della transazione, determinando le garanzie necessarie per sostenere gli impegni reciproci, in particolare nel caso di strumenti finanziari derivati; (ii) la realizzazione del regolamento finale del contratto, attraverso il trasferimento del titolo e del relativo contante, così come regolati dalla direttiva n. 1998/26/CE.

In particolare, la funzione principale delle controparti centrali è il contenimento del rischio di controparte, attraverso: (i) l’interposizione tra acquirente e venditore e l’accantonamento di margini iniziali a garanzia dei reciproci adempimenti, soggetti poi a variazione nel corso dell’esecuzione del contratto, specialmente nel caso di strumenti finanziari derivati; (ii) e la distribuzione del rischio tra i partecipanti alla CCP, a mezzo di un meccanismo noto con l’espressione default waterfall, che consente l’utilizzazione delle garanzie complessivamente accantonate per sanare la posizione debitoria del partecipante insolvente.  

Il depositario centrale, invece, oltre a svolgere la funzione di gestione accentrata degli strumenti finanziari dematerializzati, realizza il principio del c.d. delivery versus payment, di cui all’art. 39 Regolamento UE n. 909/2014, e garantisce la definitività del regolamento, interponendosi tra venditore e acquirente al fine di assicurare che il venditore non acquisti la disponibilità del contante finché non abbia perso la disponibilità dei titoli e, ipso tempore, il compratore non acquisti la disponibilità dei titoli finché non abbia perso la disponibilità del contante.  

In una prima fase, l’adozione della tecnologia DLT potrebbe avvenire su base volontaria, garantendo la partecipazione al sistema di più soggetti e consentendo il superamento delle lacune di interoperabilità del sistema. La nuova tecnologia innescherebbe così un meccanismo virtuoso di innovazione informatizzata, aumentando altresì l’efficienza del sistema e realizzando gli obiettivi di resilienza e stabilità del sistema imposti dalla normativa europea.

Successivamente, si potrebbe anche pensare di trasferire l’intera struttura di post-trading su un sistema DLT. In questa prospettiva, la DLT potrebbe assicurare l’esecuzione istantanea e il settlement degli scambi, garantendo alle parti coinvolte la possibilità di monitorare ogni operazione effettuata, rendendo sostanzialmente inutili CDS, intermediari e CCP

5. Le criptovalute nella giurisprudenza

Non è agevole dire cosa siano le c.d. monete virtuali (o criptovalute). Le migliori definizioni si rinvengono forse nei pareri delle principali autorità di vigilanza e regolamentazione, come BCE, EBA e Banca d’Italia. Sino al 2017, infatti, l’ordinamento nazionale è rimasto sprovvisto di una definizione normativa delle valute virtuali. Con il d. lgs. n. 90 del 2017, attuativo della IV direttiva europea antiriciclaggio (direttiva (UE) 2015/849), il legislatore ha modificato la normativa contenuta nel d.lgs. 231 del 2007 (c.d. decreto antiriciclaggio), definendo all’art. 1, lett. qq), la valuta virtuale come “rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.

Nonostante le soluzioni definitorie adottate, rimane comunque dubbia la questione della natura giuridica delle valute virtuali. Le tesi proposte al riguardo scontano critiche di diverso genere. Ne consegue una consistente incertezza sul regime giuridico applicabile, che pone numerosi problemi anche in relazione al diritto d’impresa. 

È in questo acceso dibattito che si collocano la sentenza del Tribunale di Brescia del 25 luglio 2018 e il decreto del 24 ottobre 2018 della Corte di Appello di Brescia. Con siffatte pronunce per la prima volta la giurisprudenza interviene sul tema dell’uso delle criptovalute in ambito societario. Secondo la ricostruzione del Tribunale di Brescia le criptovalute devono qualificarsi come “beni”. Al contrario, la Corte d’Appello le ritiene assimilabili alla “moneta”. Entrambe le ricostruzioni manifestano aspetti di debolezza. In particolare, le criptovalute intese come bene giuridico sollevano alcune perplessità in relazione al fatto che l’attribuzione di diritti di esclusiva sui beni immateriali è regolata, nel nostro ordinamento, da un principio di stretta tipicità, ossia il diritto sul bene immateriale esiste se esiste una norma che lo riconosca. Nel caso delle criptovalute una norma non c’è, o meglio c’è, ma non dice in alcun modo che un’informazione o un numero sia un bene giuridico immateriale. Una qualificazione di criptovaluta come moneta, d’altro canto, sconta differenti criticità. Le criptovalute, infatti, possono essere ricondotte con difficoltà al concetto di “moneta”, poiché non rientrano in nessuna delle ricostruzioni offerte dalle diverse norme che si occupano della valuta.

Alla fine, anche se la qualificazione della criptovaluta come servizio (rectius, prodotto) finanziario, proposta dai giudici veronesi, evidenzia anch’essa criticità, questa soluzione è forse la migliore. Sembra in effetti più ragionevole ricondurre le criptovalute alla più ampia categoria dei “prodotti finanziari”, identificati dall’art. 1, comma 1, lett. u) del TUF come “gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”, quanto meno nell’ipotesi, comune, in cui le criptovalute assumano la funzione, appunto, di “investimento di natura finanziaria”.

6. Criptovalute e criptoattività nella lettura della Commissione UE

6.1. In realtà oggi la riflessione di regolatori e giurisprudenza si sta allargando dalle criptovalute, per dire così, in senso stretto, all’area più ampia e ancor più indefinita delle c.d. criptoattività.

Al riguardo, l’elemento di maggiore novità è dato dalla Proposta della Commissione Europea del 24 settembre 2020, avente a oggetto l’emanazione di un Regolamento sui mercati di criptoattività (“Regulation on Markets in Crypto-assets” o anche MiCA) .

Ai sensi dell’art. 2, comma 1, della Proposta, il regolamento si applica agli emittenti di criptoattività, nonché ai prestatori di servizi in criptoattività nel territorio dell’Unione Europea. 

Centrale per la definizione dell’ambito di applicazione della Proposta è, appunto, la nozione di “criptoattività”. L’art. 3, comma 1, n. 2), ne fornisce una definizione abbasta generica. Queste vengono definite come “rappresentazioni digitali di valore o di diritti che possono essere trasferite o conservate elettronicamente utilizzando le distributed ledger technology o tecnologie similari” . Per ovviare alla vaghezza della definizione, l’art. 2, comma 2, aiuta a delineare oggettivamente l’ambito di applicazione della Proposta elencando una serie di “strumenti” ai quali la Proposta non trova applicazione pur potendo questi rientrare, in astratto, nella definizione di “criptoattività”. In questo elenco rientrano: (i) gli strumenti finanziari, come definiti dalla Direttiva 2014/65/EU; (ii) la moneta elettronica, come definita dalla Direttiva Directive 2009/110/EC; (iii) i depositi, come definiti dalla Direttiva 2014/49/EU; (iv) i depositi strutturati, come definiti dalla Direttiva 2014/65/EU; e (v) le cartolarizzazioni, come definite dal Regolamento 2017/2402/EU.

Al fine di circoscrivere con precisione l’ambito oggettivo di applicazione della Proposta diviene, allora, necessario leggere insieme (ma per sottrazione) l’art. 2, comma 2, e l’art. 3, comma 1, n. 2). Diventa così possibile definire una criptoattività come una rappresentazione digitale di valore o di diritti che può essere trasferita o custodita elettronicamente usando la Distributed Ledger Technology ma che non si qualifica come strumento finanziario, moneta elettronica (tranne che nei casi in cui questa non venga tokenizzata, come vedremo più avanti), deposito, deposito strutturato o cartolarizzazione. 

Sembra, allora, che la Commissione voglia offrire una definizione di criptoattività più tecnica che giuridica.

La Proposta ha lo scopo di regolare in maniera specifica l’offerta di particolari categorie di criptoattività. Queste sono sostanzialmente tre e, come si vedrà, nonostante sembra si voglia richiamare la tripartizione tradizionale in criptovalute, utility token e investment token, il documento si discosta almeno parzialmente da questa classificazione. 

Le tre categorie di criptoattività individuate nella Proposta sono: gli “utility token”, gli “asset-referenced token”; e gli “electronic money token”.

Gli utility token vengono definiti come criptoattività emesse allo scopo di fornire l’accesso digitale a un bene o a un servizio, disponibile su una rete DLT e accettate esclusivamente dall’emittente .

Gli asset-referenced token (“ART”), vengono definiti come criptoattività che mantengono stabile il proprio valore grazie al collegamento con il valore di valute aventi corso legale, panieri di beni, altre criptoattività o da una combinazione di questi . Riprendendo le classificazioni tradizionali, sarebbe possibile far rientrare gli ART nella più conosciuta categoria delle stablecoin, ovvero criptovalute il cui valore è mantenuto “stabile” attraverso il riferimento a monete aventi valore legale, beni oppure grazie all’impiego di particolari algoritmi che ne gestiscono l’offerta e quindi il valore .

Infine, gli e-money token (“EMT”) vengono definiti come criptoattività il cui scopo principale è quello di essere utilizzate per lo scambio di beni e servizi e che mirano comunque a mantenere fisso il proprio valore tramite un collegamento esclusivo con monete aventi corso legale . Anche gli EMT, quindi, possono essere considerati come una particolare tipologia di stablecoin (e quindi di criptovalute) il cui valore è esclusivamente collegato a una moneta avente corso legale. Il riferimento alla funzione di mezzo di scambio sembra quasi pleonastico considerando che quello di intermediare gli scambi sembrerebbe l’unico fine perseguibile da una criptoattività il cui valore è stabilizzato con riferimento a una precisa moneta avente corso legale.

Confrontando questa classificazione con quella tradizionale, non stupisce l’assenza della categoria degli investment token. Essa sembra confermare, invece, il principio, definito già da tempo in dottrina e nella giurisprudenza d’oltre oceano, secondo cui gli investment token sono strumenti finanziari a tutti gli effetti e a questa categoria si applica la relativa disciplina, senza alcuna deroga o “aggravio” regolamentare per il fatto che lo strumento finanziario sia rappresentato attraverso una criptoattività. 

Deve far riflettere, piuttosto, l’attenzione particolare dedicata alle criptovalute e, fra di esse, alle c.d. stablecoin. La disciplina di dettaglio degli ART e degli EMT, infatti, fa trasparire la preoccupazione che la diffusione di queste “monete digitali” possa attentare alla stabilità finanzia o ai principi di sovranità monetaria dell’Unione. 

Rispetto alla tradizionale tripartizione, quindi, la proposta ha mantenuto solo il numero, scegliendo di focalizzarsi su quelle tipologie di criptoattività non coperte (come le criptovalute) o non coperte abbastanza (come gli utility token) da una disciplina, anche parziale, a livello europeo. L’art. 3 fornisce anche una definizione di prestatore di servizi in criptoattività , nonché un preciso elenco di questi servizi . 

6.2. Anche dal punto di vista soggettivo, la Proposta utilizza la medesima tecnica “per sottrazione” utilizzata nella definizione del proprio ambito oggettivo di applicazione. 

Il principio base è, infatti, quello secondo cui la disciplina si applica a tutti gli emittenti e ai prestatori di servizi in criptoattività,ma con le eccezioni descritte dall’art. 2, commi 3-6 . È possibile classificare queste eccezioni, distinguendo fra soggetti completamente esclusi dalla disciplina e soggetti la cui esclusione è solo parziale. 

Fra i soggetti completamente esenti dalla disciplina, rientrano la Banca Centrale Europea e le banche centrali nazioni quando queste agiscono nell’esercizio dei propri poteri; la Banca Europea degli Investimenti; il Meccanismo europeo di stabilità e il Fondo europeo di stabilità finanziaria; le organizzazioni internazionali. 

Fra i soggetti parzialmente esenti rientrano invece gli istituti di credito e le società di investimento; le imprese di assicurazione e riassicurazione nello svolgimento delle attività previste dalla Direttiva 2009/138/EC; i liquidatori o gli amministratori straordinari nello svolgimento delle attività di liquidazione per i quali sono stati nominati, tranne che nel caso in cui stiano attuando un piano di liquidazione di cui all’art. 42 della Proposta; nonché i soggetti che svolgono servizi in criptoattività a favore di società collegate.

In particolare, gli istituti di credito non sono soggetti alla disciplina solo quando emettono ART, oppure prestano uno o più servizi in criptoattività. Nel primo caso, ad essi non si applica il Capitolo 1, Titolo III della Proposta, che disciplina la procedura autorizzativa per l’emissione di ART, nonché l’art. 31 riguardante i requisiti patrimoniali dell’emittente. Nel secondo caso, le banche che prestano servizi in criptoattività non sono tenute al rispetto delle previsioni di cui al Capitolo 1, Titolo V e dunque, anche in questo caso, alla procedura autorizzativa.

Le società di investimento, invece, sono tenute a rispettare le regole in materia di autorizzazione alla prestazione di servizi in criptoattività (Capitolo 1, Titolo V) solo qualora offrano un servizio in criptoattività in relazione al quale possiedono l’autorizzazione alla prestazione del servizio di investimento corrispondente . 

6.3. Il primo tipo di offerta disciplinato dalla Proposta è quello che ha per oggetto le criptoattività diverse dagli ART e gli EMT. 

In via preliminare si può osservare come questa categoria sia più ristretta di quanto si potrebbe dedurre dalla lettura della Proposta. Si deve infatti ritenere che fra le criptoattività che non possono essere offerte con modalità “semplificate” vi siano anche i c.d. investment token, categoria questa dimenticata dalla Proposta regolamentare .

Rientrano invece a pieno titolo in questa categoria gli utility token. In virtù della loro diffusione in questo settore, sembra corretto sin da ora ritenere che sia questa la categoria che il Titolo II della proposta regolamentare intende disciplinare principalmente . 

È possibile, invece, dubitare che l’intera Proposta possa applicarsi alle criptovalute in senso proprio e quindi a Bitcoin o alle altre criptovalute in cui non è possibile identificare un emittente o comunque un soggetto che abbia realizzato o promosso il relativo progetto. Di ciò si ha conferma dalla lettura dell’art. 4, comma 2, della Proposta all’interno del quale, fra le esenzioni dalla pubblicazione del c.d. white paper (una sorta di documento informativo dell’offerta), rientra il caso in cui la criptoattività in questione sia solo il risultato di una attività di mining ovvero sia attribuita automaticamente ai soggetti che si occupano di sostenere una infrastruttura di rete DLT, detenendo una copia del registro distribuito e validando le transazioni (i c.d. nodi). Esenzione che, se per certi versi costituisce un riconoscimento importante, in realtà però appare di dubbia utilità. Invero l’offerta al pubblico di una criptoattività con le menzionate caratteristiche non avrà, per definizione, neanche un organo gestorio cui gli obblighi (e le responsabilità) delineati nella Proposta possano essere riferiti. 

6.4. La proposta si occupa, poi, degli offerenti asset-referenced tokens o ART.

Come anticipato, gli ART sono definiti dalla proposta come stablecoin il cui valore può dipendere da monete aventi corso legale, altre criptoattività o altri beni. Considerata la diffusa preoccupazione che l’offerta di ART, per via della loro natura, possa costituire un “nemico naturale” della moneta avente corso legale, la disciplina della loro offerta al pubblico è caratterizzata da procedure autorizzative che vedono il coinvolgimento di più autorità, nonché dalla possibilità di vietarne l’offerta qualora questa possa minacciare la stabilità finanziaria o i principi di sovranità monetaria.

6.5. La terza fattispecie, riguardante l’offerta di EMT, appare leggermente meno stringente. Ciò sembra giustificabile in base alla diversa natura delle criptoattività oggetto di offerta. E infatti, rispetto agli ART, il valore degli EMT dipende esclusivamente dal valore di una moneta avente corso legale presa a riferimento. Così come espressamente stabilito dall’art. 43, gli EMT sono da considerarsi, a tutti gli effetti, come moneta elettronica così come definita dalla Direttiva 2009/110/EC, seppure ne costituiscano la versione tokenizzata

Proprio in virtù di questa identità con la moneta elettronica, le offerte al pubblico di EMT possono essere condotte esclusivamente da istituti di credito o istituti di moneta elettronica ai quali è comunque richiesta la pubblicazione di un white paper .

6.6. Quanto alle procedure autorizzative dei prestatori di servizi in cripto attività, l’art. 53 della Proposta esordisce enunciando un principio di esclusività, secondo cui i servizi relativi all’impiego di criptoattività possono essere offerti solo dai soggetti autorizzati ai sensi della nuova disciplina. L’autorizzazione ha validità in tutto il territorio dell’Unione, tanto che è fatto divieto agli Stati membri di imporre ai soggetti già autorizzati una presenza fisica all’interno del proprio territorio .

L’autorizzazione deve essere richiesta all’autorità competente del luogo in cui il soggetto ha la propria sede legale. L’istanza deve contenere una lunga serie di informazioni, fra  le quali meritano particolare attenzione: la descrizione dei sistemi tecnologici e di sicurezza, che deve essere effettuata anche utilizzando un linguaggio non tecnico; il dettaglio delle procedure di segregazione degli asset dei propri clienti; nonché i sistemi per l’individuazione di abusi di mercato. L’istanza deve, inoltre, descrivere gli specifici servizi che il soggetto intende offrire.

La procedura di autorizzazione è leggermente più semplice di quella prevista per l’offerta al pubblico di criptoattività. Non è, infatti, richiesto il coinvolgimento di altre autorità e, soprattutto, la verifica che l’attività intrapresa abbia effetti sulla stabilità finanziaria o sui principi di sovranità monetaria.

La prestazione di servizi in criptoattività è soggetta a obblighi comportamentali nonché a requisiti prudenziali. Con riguardo agli obblighi comportamentali, si prevede che, quasi come un tradizionale intermediario finanziario, i prestatori debbano agire con onestà, correttezza e professionalità, perseguendo il miglior interesse del cliente. I prestatori sono inoltre soggetti a obblighi di corretta informazione, soprattutto nelle comunicazioni promozionali, che devono essere chiaramente identificate come tali. Particolare attenzione merita l’obbligo di non evidenziare i vantaggi percepiti, o reali, delle criptoattività con cui operano. Infine, i clienti devono essere informati dei rischi collegati a queste operazioni nonché delle tariffe applicate dal prestatore . 

Ai prestatori di servizi in criptoattività vengono poi imposti precisi requisiti organizzativi, obblighi di custodia e salvaguardia delle criptoattività e dei fondi dei propri clienti e obblighi di predisporre procedure per la gestione dei reclami. 

6.7. Quanto ai servizi “tradizionali” in criptoattività – servizi di custodia e piattaforme di scambio (c.d. exchange) – maggiore rilevanza va data al primo, allo scopo di verificare come operatori “tradizionali” siano stati regolati all’interno della Proposta. In questa categoria è infatti possibile far rientrare gli operatori che sin dall’inizio caratterizzano questo mercato.

Gli obblighi specifici per wallet service provider (definiti dalla Proposta come prestatori di servizi di custodia e gestione di criptoattività) sono descritti all’interno dell’art. 67. Fra questi, merita particolare menzione l’obbligo di adottare precise policy per assicurare la protezione delle chiavi private di ogni wallet e impedire, in qualsiasi modo, che un cliente possa perdere l’accesso alle proprie criptoattività per truffa, negligenza o attacchi da parte di cyber-criminali

Questi prestatori devono poi facilitare al cliente l’esercizio dei diritti insiti nelle criptoattività per suo conto detenute. A tal riguardo, i clienti devono ricevere informazioni sulle criptoattività detenute almeno trimestralmente e in ogni caso quando la detenzione di una particolare criptoattività richieda una qualsiasi forma di loro partecipazione o azione. 

I wallet service provider devono poi assicurare che le chiavi private o, in ogni caso, le stesse criptoattività siano prontamente messe a disposizione del cliente che le richieda. Le criptoattività dei clienti devono essere, inoltre, tenute separate dagli asset propri del prestatore, assicurandosi anche che le criptoattività appartenenti a una medesima rete DLT siano tenute presso indirizzi separati. Si dovrebbero ridurre, in questo modo, i danni di un attacco hacker nei confronti del prestatore. Infine, si prevede espressamente che i prestatori siano considerati direttamente responsabili nei confronti dei propri clienti per perdite di criptoattività come conseguenza di malfunzionamenti (c.d. bug) oppure di attacchi hacker

Le regole previste a favore degli exchange di criptoattività (definiti nella Proposta come prestatori di servizi di negoziazione) ricalcano le regole per la corrispondente tipologia di intermediario finanziario. Lo scopo è quello di evitare che, in assenza di una regolamentazione, questi operatori possano preferire alcuni clienti invece che altri e venir meno, così, ai principi di parità di trattamento, fondamentali per la prestazione di questo tipo di servizio . Al riguardo, si afferma esplicitamente che i prestatori devono rendere pubbliche le procedure che garantiscono la parità di trattamento dei propri clienti, ma soprattutto che non possono operare per proprio conto. Quest’ultima disposizione sembrerebbe mettere in dubbio la possibilità, largamente invalsa fra gli exchange di criptoattività più attivi sui mercati, di ammettere agli scambi criptoattività di propria emissione .

Oltre a questi principi generali, si esplicita, inoltre, che non possono essere ammesse alla negoziazione criptoattività delle quali non sia stato pubblicato un white paper. Viene addirittura richiesto ai prestatori di questi servizi di operare una autonoma valutazione sulle criptoattività da ammettere allo scambio; valutazione che può prendere in considerazione anche la professionalità dell’offerente e dei componenti dei suoi organi di gestione.  

6.8. La Proposta rappresenta sicuramente una novità di grande rilevanza nel settore delle criptoattività, e più in generale in quello dei mercati finanziari. La sua adozione definitiva, soprattutto senza modifiche, non passerà sicuramente inosservata. Ciò è vero non solo per il mercato delle criptoattività ma, soprattutto, per il mercato attualmente occupato dagli intermediari finanziari “tradizionali”.

Va detto che la Proposta, con riguardo al mercato delle criptoattività, per come è strutturata, e nonostante la previsione di esenzioni, potrebbe addirittura avere l’effetto di rallentare la nascita di nuovi operatori, portando piuttosto al consolidamento dei soggetti esistenti, i quali sono già riusciti a raccogliere la liquidità necessaria per rispettare le norme che verranno emanate. D’altro canto, la Proposta potrebbe rendere la prestazione di questi servizi più sicura, in questo modo aumentando la fiducia da parte degli utilizzatori finali e quindi, indirettamente, il loro numero.

Deve poi essere considerata con particolare attenzione la scelta di equiparare i prestatori di servizi in criptoattività ai più tradizionali intermediari finanziari, nonostante la dichiarata natura non finanziaria delle criptoattività oggetto di offerta.

Stupisce, infine, l’assenza di riferimenti alle entità decentralizzate,nonché a tutto il settore, oggi in fase di grande sviluppo, conosciuto con il termine di “DeFi” (che sta per Decentralized Finance). La scelta potrebbe trovare giustificazione nel fatto che questo nuovo mercato sia ancora ai suoi albori. Ci si augura però che, prima di definire il quadro regolamentare, si possano prendere in considerazione anche questi operatori. 

Diversamente, si affaccerebbero due scenari potenzialmente alternativi. Primo scenario è quello in cui questi operatori “decentralizzati”, non essendo considerati dalla normativa, continuino a operare con la loro essenziale struttura “diffusa”, che non ne consentirebbe una sicura e coerente regolamentazione. Secondo scenario ipotizzabile è quello in cui, in mancanza di regolamentazione, siffatti servizi debbano ritenersi vietati. 

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