Per arrivare all'immunità di gregge a livello globale per il marzo 2022, basta che i paesi ricchi mettano mano al portafoglio. Cioè siano loro a finanziare l'acquisto dei vaccini che i paesi poveri non sono in grado di acquistare. Lo suggerisce la World Bank. Può essere questa la soluzione che eviterà la sospensione dei brevetti proposta da Biden?
Con il Covid, il tema dei brevetti, fino a oggi riservato ai giri dei regolatori, alle lobby e ai dossier degli sherpa del WTO, la World Trade Organisation, è diventato improvvisamente materia di dibattito generale. Facendo percepire quanto sia cruciale governarlo da punto di vista economico non soltanto a favore dei privati, ma anche della collettività.
Come si fa a vincere il virus e metterci tutti al sicuro dall’insorgere di varianti, se non si è tutti vaccinati? La risposta che è diventata l’elefante nella cristalleria è che per essere tutti, ma proprio tutti vaccinati, i vaccini devono essere messi a disposizione senza alcun vincolo, né di quantità né di prezzo. Insomma, devono cadere i brevetti con cui le Big Pharma li proteggono.
L’idea, lanciata dal presidente americano Jo Biden, ha trovato una grande eco in tutto il mondo e un seguito immediato, a cominciare, in Europa, dal francese Emmanuel Macron e da Mario Draghi. Contraria da subito, invece, la tedesca Angela Merkel, accusata per questo di difendere la multinazionale di casa, la Pfizer.
Mentre i primi due leader hanno successivamente frenato i loro entusiasmi sulla cancellazione dei brevetti delle case farmaceutiche occidentali, è sceso in campo il premier spagnolo Pedro Sanchez, che ha rilanciato l’idea, sul Financial Times, con un vero manifesto di azione collettiva per la salute pubblica che abbatta tutte le barriere (doganali, tecnologiche) e che acceleri la distribuzione del vaccino.
È vero, dice Sanchez, che in tempi normali l’innovazione richiede forti investimenti e giustifica la difesa che in questo ruolo hanno i grandi gruppi farmaceutici. Ma non siamo in tempi normali. Per la fine di maggio saranno stati prodotti a livello globale 2 miliardi di vaccini mentre ne servirebbero 11 miliardi per immunizzare il 70 per cento della popolazione. Che aspettiamo dunque a rivedere le regole della proprietà intellettuale, anche in vista di future pandemie?
Qui entra in gioco l’argomento del partito opposto, che vede naturalmente in prima fila le case produttrici. Argomento che ha il suo silver bullet nell’osservazione che non basta rendere pubbliche le “ricette” dei vaccini per consentirne automaticamente la produzione di massa: servono la materie prime, e servono le infrastrutture con le strumentazioni appropriate, cioè il know-how. Requisiti entrambi rari fuori dai paesi avanzati.
Un vaccino che si basa sull’Rna messaggero, per esempio, non ha un solo brevetto, ma ne contiene più di 80; la sua produzione è un collage di 280 componenti diversi provenienti da 19 diversi paesi in un vero puzzle logistico. È quanto ha spiegato Albert Bourla, ceo di Pfizer, che ha lanciato un allarme sul fatto che quei componenti, in un mercato senza più brevetti, prenderebbero nuove strade, rendendo più difficile l’approvvigionamento per chi può produrre correttamente il vaccino, e finendo a chi invece non può garantire di averne la capacità. Insomma si rischia l’effetto opposto a quello che si vuole ottenere.
Se è ovvio che Big Pharma resista a rinunciare alla protezione ventennale dei brevetti, che cosa possono fare gli Stati, che le regole le scrivono nei grandi consessi internazionali (dalla Commissione Ue al WTO), che in Europa sostengono l’impresa farmaceutica con i propri sistemi sanitari, e che sia in Europa che negli Usa hanno finanziato, prenotato e pagato in anticipo i vaccini riducendo quindi il rischio dei produttori, dunque qualche argomento per dire la loro lo possiedono? Cosa possono, e devono fare, soprattutto ora che le dimensioni della pandemia in India e in altri paesi poveri combina etica e geopolitica in un mix ineludibile?
Tirare in ballo il potere pubblico fa accapponare la pelle agli spiriti liberal, ma in questo caso gli argomenti a suo favore non mancano. Li ha messi in evidenza Massimo Florio, professore di Scienza delle Finanze all’Università di Milano, ricordando che quei brevetti si basano in grandissima parte sulla ricerca pubblica, quindi sono stati indirettamente finanziati dai contribuenti: lo sono i vaccini a mRNA (su cui si basano i vaccini Pfizer/Biontech e Moderna) e la tecnologia di trattamento delle proteine virali spike (su cui si basa l’Astra Zeneca), di cui le agenzie governative americana hanno concesso licenze non esclusive ad alcune aziende farmaceutiche.
L’impressione però è che la capacità dei governi dei paesi avanzati di dare risposte tempestive alle nuove emergenze sanitarie delle parti meno sviluppate del mondo sia molto sotto le aspettative. Un passo verso una maggiore equità nella distribuzione dei vaccini era stato fatto: con l’alleanza chiamata Covax, guidata dalla World Health Organization, che riunisce oltre 150 paesi “ricchi” con l’impegno di condividere i vaccini con i paesi in via di sviluppo. Peccato che i risultati siano finora inferiori alle promesse, e la tempistica non all’altezza dell’emergenza.
Una soluzione che raddrizzi le disuguaglianze e nello stesso tempo non rivoluzioni le protezioni che incentivano le imprese a investire sulla ricerca, ci può essere. La suggerisce un paper della World Bank ed è quasi banale: per arrivare all’immunità di gregge a livello globale per il marzo 2022, basta che i paesi ricchi mettano mano al portafoglio. Cioè siano loro a finanziare l’acquisto dei vaccini che i paesi poveri non sono in grado di acquistare.
Il piano della WB fa anche i conti. Innanzitutto si pone come obiettivo la vaccinazione entro quella data del 60 per cento della popolazione mondiale. Per raggiungerlo occorre vaccinare ogni mese da subito il 5 per cento della popolazione per un totale di 4,75 miliardi di coperture vaccinali. Tutto bene, ma con quali vaccini? E per quante persone?
I paesi a basso e medio reddito hanno una popolazione di 6,5 miliardi. Di questi, 3 miliardi vivono in Russia, Cina e India, dove o sono stati sviluppati vaccini nazionali, o la WB considera che ci siano capacità di produrli per i propri bisogni (come in India, in parte coperta dagli interventi Covax, ma in cui resta un gap di 500 milioni di dosi per arrivare all’immunità di gregge del 60 per cento: la WB pensa che il paese possa farcela da solo, viste le sue capacità produttive e l’intesa con Astra Zeneca per la produzione su licenza). Un altro miliardo di persone è in paesi dal reddito medio, che sono in grado di acquistare da sé i vaccini. Restano 2,5 miliardi di persone in 91 paesi: sono quelli che hanno accesso al programma Covax, ed è su questi che la WB invita a concentrarsi.
Il gap di disponibilità di vaccini per completare una copertura al 60 per cento della popolazione in questo gruppo di paesi, calcola lo studio della World Bank, consiste in dosi per 350 milioni di persone (cioè 700 milioni di vaccini).
Non si tratta di un numero che spaventa la capacità produttiva delle case farmaceutiche. Solo che quei paesi non sono in grado di pagare questa extra-fornitura. E i finanziamenti già erogati al progetto Covax di 6,3 miliardi di dollari non sono sufficienti. Quindi serve che i donatori tra i paesi ricchi aprano di nuovo la borsa per tirare fuori altri 4 miliardi. Con questo nuovo supporto, paesi che già potevano con i propri mezzi puntare a vaccinare il 20/30 per cento della popolazione potranno arrivare l’anno prossimo a raggiungere il 60 per cento. Obiettivo che sarebbe ancora a più facile portata se i paesi ricchi, che hanno prenotato e acquistato dosi in eccesso rispetto alla propria popolazione, trasferissero le eccedenze ai 91 svantaggiati.
Un impegno collettivo di soldi di questa portata servirebbe a rassicurare le case farmaceutiche produttrici rispetto agli investimenti da fare per evitare i colli di bottiglia nella produzione. E sarebbe anche un ottimo investimento per tutti, visto che è stato stimato che ogni mese di anticipo nell’uscita dalla pandemia vale circa l’uno per cento del Pil mondiale.
Che cosa frena questa soluzione? Qui il paper passa alla dolenti note. Intanto c’è la lentezza dei donatori nel versare le cifre promesse, in cui ognuno aspetta che sia l’altro a versare per primo, con il risultato dell’effetto contagocce, che certo non aiuta i produttori farmaceutici a sentirsi sicuri. Poi c’è un altro fattore. Ed è che i 91 paesi destinatari non possono scegliere quale vaccino opzionare nel momento in cui chiedono il supporto dei prestiti della World Bank per pagarli.
Questo in virtù della regola che il vaccino sia stato autorizzato da tre autorità regolatorie di tre diverse regioni oppure dalla World Heath Organisation più un’autorità regionale. E poiché le autorità in questione sono collocate nei paesi occidentali e in Giappone, dove si tende ad approvare solo i vaccini che si vogliono usare per la propria popolazione, una parte dei 10 vaccini disponibili attualmente – che hanno tutti una efficacia almeno del 50 per cento e comunque evitano ospedalizzazione e decesso – non è neanche presa in considerazione.
Di quali vaccini si parla? Nella lista dei 10 ci sono ovviamente l’Az/Oxford, il J&J, il Pfizer/Bnt, il Moderna, ben conosciuti in Occidente, ma anche il Cansino (Cina), il Sinovac (Cina), il Sinopharm (Cina), il Bharat (India), il Gamaleya (Russia) e il Novavax (Usa). Tutti vaccini, questi ultimi, che sono stati accettati in molti paesi che potrebbero facilitare il raggiungimento dell’immunità di gregge globale se solo le regole che ne limitano l’acquisto fossero cambiate. Per esempio, suggerisce il paper della World bank, ampliando il numero delle autorità in grado di valutare i vaccini giunti alla “fase tre” come il vaccino indiano, quello russo e della cinese Sinovac, e quindi in rampa di lancio per la commercializzazione.
In conclusione, suggerisce la World Bank, prima di terremotare un sistema, quello dei bevetti, che ha portato alla produzione in tempi record dei vaccini che ci stanno tirando fuori dalla pandemia, e prima di creare una deroga ad alta tensione all’interno del WTO, forse questo di dare ai paesi ricchi la responsabilità di aiutare concretamente quelli poveri senza dover affrontare una grande spesa potrebbe essere un modo più efficace di riequilibrare le iniquità del mondo.