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Antidoti alla contrazione del credito bancario

Le imprese italiane sono sottocapitalizzate ed eccessivamente sbilanciate sul finanziamento a breve termine. Soprattutto bancario. Lo conferma una nuova ricerca Casmef-Assosim. Ecco come si è mosso il legislatore per sviluppare un mercato privato del capitale di debito.

Giorgio Di Giorgio
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Gli ultimi mesi del 2013 hanno confermato la dinamica sfavorevole degli impieghi bancari in atto ormai da almeno un biennio in Italia. Il “credit crunch” ha causato, nel Paese, una diminuzione dei prestiti a famiglie e imprese di circa €70 miliardi tra il 2012 e il 2013. E, in seguito all’introduzione della nuova regolamentazione di Basilea sui requisiti patrimoniali, si stima che le banche italiane dovranno ridurre i propri attivi per cifre altrettanto importanti nei prossimi anni.

Come noto, la contrazione del credito bancario ha effetti particolarmente negativi  per le Pmi, più soggette, rispetto alle grandi imprese, sia a processi di razionamento del credito che a maggiori oneri finanziari dovuti a spread più elevati sui tassi di interesse applicati. Ed infatti, il numero delle Pmi che dichiarano di non riuscire ad ottenere finanziamenti è in costante crescita dal 2010. Una recente ricerca condotta dal Casmef della Luiss in collaborazione con Assosim (pubblicata nel numero 2-3 / 2012 di questa Rivista) mostra che tutte le imprese italiane sono in media:

  1. sottocapitalizzate e
  2. eccessivamente sbilanciate sul finanziamento a breve termine.

Per quello che riguarda la finanza ottenuta con capitale di debito, il mercato obbligazionario privato continua ad essere sottosviluppato. La consistenza dei prestiti obbligazionari non raggiunge neanche l’8% dei debiti finanziari delle imprese, a fronte di valori superiori al 20% in Francia e al 30% nel Regno Unito. Le emissioni sono ancora appannaggio di poche aziende italiane di grande dimensioni (Eni, Enel, Telecom, Fiat, …oltre alle grandi banche e assicurazioni). Le imprese italiane mostrano anche una eccessiva dipendenza dal settore bancario: il credito bancario rappresenta oltre due terzi dei debiti finanziari delle aziende, rispetto a circa un terzo in Francia e nei paesi anglosassoni ed alla metà in Germania. Tra il 2007 e il 2012, inoltre, la quota percentuale del credito bancario è aumentata solo in Italia, tra i paesi maggiormente industrializzati.

Alcune recenti evoluzioni normative rendono peraltro possibile l’avvio di un processo di sviluppo del mercato privato del debito potenzialmente in grado di limitare gli effetti negativi del processo di disintermediazione e di contribuire a sanare alcune delle inefficienza richiamate.

L’art. 32 del d.l. Crescita, anche noto come “mini bond”, ad esempio, ha l’obiettivo di ampliare/semplificare le modalità di finanziamento delle società non quotate. In particolare mira:

    • a rimuovere i vincoli e gli ostacoli civilistici, fiscali e societari all’emissione di obbligazioni e cambiali finanziarie da parte di società non quotate;
    • ad allineare le opportunità di finanziamento delle imprese a quelle dei più avanzati sistemi industriali e finanziari europei.

Si auspica quindi di passare dalla situazione attuale, caratterizzata da emissioni di obbligazioni limitate e concentrate per i 4/5 del valore su solo 4 emittenti, ad una in cui possano potenzialmente accedere a questo tipo di mercato anche le imprese di medie dimensioni.

Dall’analisi 2012 di Mediobanca sulle principali società italiane emerge che:

    • le imprese con un fatturato superiore ai € 50 milioni ed inferiore ai € 700 milioni sono poco più di 2.030;
    • il loro fatturato medio è di € 205 milioni;
    • il margine operativo netto medio è di poco superiore ai € 10 milioni.

Il numero di imprese con un fatturato compreso tra i €10 – €50 milioni ammonta invece a oltre 20 mila. Secondo la stima scaturita dal dialogo tra operatori di mercato e il Dipartimento del Tesoro, il mercato dei cosiddetti “mini-bond” potrebbe valere tra i €50 e i €100 miliardi. Si tratta ovviamente di una dimensione potenziale che si potrà raggiungere nei prossimi anni solo a patto che si crei un’“infrastruttura” di investitori istituzionali capace di assorbire un simile volume di emissioni obbligazionarie.

Qui vogliamo sottolineare come lo sviluppo di un mercato privato del capitale di debito non vada necessariamente visto come mero sostituto del credito fornito dalle banche (e dunque impattare negativamente sulla già provata redditività bancaria). Consentirebbe invece anche vantaggi significativi per il settore bancario, in termini di liberazione di capitale e miglioramento strutturale della composizione dei bilanci.

Per ciò che riguarda la liberazione di capitale, la nuova normativa di Basilea innalza i quozienti di patrimonializzazione e rende più stringente la definizione del capitale regolamentare. Ciò pone limiti alla composizione e all’espansione del bilancio bancario. Per far fronte ai nuovi requisiti patrimoniali, le banche devono necessariamente agire sulle passività (mettendo in atto delle ricapitalizzazioni), oppure ridimensionare l’attivo (ovvero ridurre i prestiti o selezionare quelli caratterizzati da un minor rischio di credito). In questo contesto, l’accesso delle Pmi a fonti di finanziamento alternative permetterebbe agli istituti di credito di ridurre il rischio di credito sostenuto e di liberare capitale da destinare a impieghi più vantaggiosi dal punto di vista del rispetto dei requisiti patrimoniali.

Per quello che riguarda il miglioramento del bilancio bancario, la considerazione della mancanza di fonti di finanziamento alternative al credito bancario, in periodi di credit crunch, impedisce alle imprese di fare investimenti e di svolgere la propria attività, con l’effetto di acuire le difficoltà economiche e finanziarie e aumentare il rischio di credito e il numero delle insolvenze.

Ciò si ripercuote sui bilanci bancari in quanto le aziende in difficoltà o non in grado di ripagare il debito peggiorano la qualità degli attivi. Il mercato privato del debito contribuisce quindi a sostenere le imprese nel perseguimento della propria attività attraverso il miglioramento della loro struttura del capitale e costituisce un vantaggio indiretto per gli istituti creditizi, che beneficiano della presenza in bilancio di crediti concessi ad aziende che sono in grado di svolgere appieno la propria attività e risultano quindi solvibili. Il rapporto banca impresa dovrebbe evolversi sul fronte dell’offerta di servizi alle imprese, ancora troppo poco diffusi in Italia all’interno del settore bancario, come i servizi di consulenza e di strutturazione di operazioni di emissione.

Gli istituti creditizi potrebbero ottenere diversi benefici da questa evoluzione, tra cui:

    • diversificazione delle fonti di reddito (e di rischio);
    • commissioni  di  strutturazione  e  consulenza  a  fronte  di  costi  di  due  diligence

relativamente contenuti grazie alla vicinanza storica tra banche e Pmi italiane;

    • rafforzamento del rapporto con le imprese attraverso l’instaurazione di relazioni di lungo periodo per l’accompagnamento sul mercato dei capitali.

Ciò costituisce una vera e propria opportunità di investimento che rischia di essere colta in ritardo rispetto alle grandi banche e istituzioni finanziarie internazionali. Se, da un lato, queste possiedono apparati molto sofisticati di analisi del credito e maggiori dimensioni, dall’altro le banche italiane possono contare su un vantaggio competitivo dato dalla profonda conoscenza maturata nei confronti di queste realtà spesso poco trasparenti.

La domanda principale resta quale sia la modalità più efficace per la realizzazione di questo canale di finanziamento alternativo per le esigenze delle imprese e se esiste un ruolo per gli investitori istituzionali.

Un veicolo appropriato potrebbero essere i “fondi di credito”, che raccolgono capitale da investitori istituzionali per investirlo in debito senior e non, nonché eventualmente in mini-bond, di aziende non finanziarie. Questi sono ancora relativamente poco diffusi in Europa, ma intermediano circa l’80% del credito alle imprese e alle famiglie negli Stati Uniti ed hanno contribuito in termini decisivi alla disintermediazione bancaria (negli Usa molto più avanzata): si consideri che negli Stati Uniti, nel 1950, le banche controllavano più del 75% dei finanziamenti erogati, mentre oggi, grazie anche allo sviluppo dei fondi di credito, le banche controllano solo un terzo dei finanziamenti erogati.

Tipicamente, i fondi di credito sono strutturati come fondi di tipo chiuso con una durata e una liquidità delle quote limitate. Questi fondi, per le loro caratteristiche, presentano diversi vantaggi per gli investitori istituzionali:

    • minore rischiosità: investendo in credito, spesso assistito da garanzie reali, hanno un profilo di rischio inferiore rispetto ad altri strumenti finanziari di capitale;
    • assenza  della  cosiddetta   Curve:  necessitano  infatti  di  un  breve  periodo  di costruzione del portafoglio ed investono in asset remunerati con interessi cash. Non si manifesta quindi l’effetto “J” tipico degli altri fondi chiusi (di private equity o di real estate, in cui per i primi anni non ci sono proventi, solo spese, e solo successivamente si manifestano i rendimenti degli investimenti);
    • distribuzioni cedolari costanti: tipicamente la remunerazione dell’asset class è destinata a finanziare distribuzioni periodiche sin dall’avvio dei fondi;
    • trasversalità settoriale: non si concentrano su un particolare settore investendo in modo trasversale sui diversi settori industriali e di servizi;
    • razionalizzazione della struttura patrimoniale delle imprese: i fondi di credito tipicamente investono in finanziamenti a medio e lungo termine; consentono quindi di riequilibrare la struttura patrimoniale delle società attualmente eccessivamente sbilanciata  a favore del debito a breve termine;
    • complementarietà con il sistema bancario: lo sviluppo dei fondi pensioni agevola la disintermediazione bancaria creando opportunità di business per le divisioni di corporate finance delle banche (servizi di originationplacement etc.);

Nello scenario attuale, gli investitori istituzionali, assicurazioni, fondi pensione e, in parte, anche i fondi comuni tradizionali, dovrebbero aumentare gli investimenti in:

    • fondi di private equity;
    • fondi real estate;
    • fondi di credito.

L’investimento in queste asset class, infatti, ed in particolare nei fondi di private equity e nei fondi di credito, agevola il miglioramento della struttura finanziaria delle imprese medio grandi e può generare rilevante indotto per le medio piccole.

Lo sviluppo di queste forme di investimento contribuisce, inoltre, ad aumentare la managerialità interna alla imprese di medie dimensioni, la trasparenza, ed una maggiore compliance legale, contabile e fiscale, come risultato ovvio dei rapporti con investitori altamente professionali.

Ad oggi, nel confronto internazionale emerge un grave ritardo del paese in questi campi. In particolare, le nostre assicurazioni, fondazioni bancarie e fondi pensione risultano ancora eccessivamente “investite” in obbligazioni governative. Speriamo che il 2014 porti sviluppi concreti nella direzione di una maggiore apertura al mercato da parte di tutti i soggetti coinvolti.

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