approfondimenti/regolazione
Ancora perplessità sul decreto salvabanche

Il c.d. salvabanche ha segnato la prima attuazione in Italia degli strumenti di risoluzione delle crisi bancarie, preoccupandosi però di evitare l’applicabilità del bail in. Si è realizzato così il concorso nell’assorbimento delle perdite delle banche sottoposte a risoluzione, da parte di azionisti e creditori, limitando il potere discrezionale della Banca d’Italia, in veste di Autorità di risoluzione, nella valutazione di appropriatezza e adeguatezza delle misure da adottare. Le quattro banche interessate, gli azionisti e i creditori hanno ottenuto in tal modo un trattamento, che non appare replicabile in futuro per casi analoghi. Una scelta condizionata dalla diversa interpretazione attribuita al ruolo dei sistemi di garanzia e che, oltre a costituire un precedente dedicato a specifica fattispecie, si espone al rischio di una determinazione del sacrificio dei diritti individuali, senza il pieno esercizio delle attività valutative poste a presidio del più adeguato equilibrio del concorso tra pubblico e privato nella copertura delle perdite, conducendo ad una conseguente individuazione delle categorie di creditori da coinvolgere e della misura del ricorso al Fondo di risoluzione.

Filippo Fiordiponti
Fiordiponti

La popolarità del d.l. 183/2015 è piuttosto sinistra, derivando dal doloroso sacrificio imposto a numerosi creditori delle banche coinvolte. Noto come un intervento che ha salvato quattro banche in difficoltà e penalizzato gli investitori, in realtà ha costituito il controverso esordio della nuova disciplina di risanamento e risoluzione delle crisi bancarie adottata con la Direttiva 2014/59 UE ( Bank Recovery and Resolution Directive), che, dopo aver accumulato cospicuo ritardo nei tempi di recepimento, ha provocato una forte reazione nella pubblica opinione ed avuto grande risonanza mediatica, fino a richiedere nuove misure, volte a stabilire forme di sostegno solidaristico ed inserite nella legge di stabilità 2015. L’ utilizzo degli strumenti di risoluzione si è realizzato in tempi serrati, che hanno visto la pubblicazione dei dd. lg. n. 180 e 181 di attuazione della BRRD in data 16 novembre 2015, seguita dalla decisione della Banca d’Italia, nella nuova veste di National resolution authority, di avviare il programma di risoluzione il 21 novembre 2015 ed infine dal d.l. n. 183 del 2015 il giorno seguente, domenica 22 novembre. La Commissione europea ha dato poi il via libera, non mancando di osservare che per l’Italia si è trattato del primo esempio di ricorso agli strumenti di risoluzione. L’impostazione data alla vicenda è stata in tal modo inquadrata nell’ambito della disciplina introdotta dalla BRRD e il consenso ottenuto in sede comunitaria è conseguente, sulla considerazione che l’intervento pubblico è ridotto al minimo, evitando effetti distorsivi della libertà di concorrenza.

É stato necessario attendere l’adozione dei decreti attuativi della BRRD per utilizzare strumenti alternativi alla liquidazione coatta, altrimenti ritenuta unica via percorribile, e chiudere procedure di amministrazione straordinaria, considerate prive di prospettiva (si tratta di procedure aperte in tempi diversi a partire dal 2013 e fino alla più recente, Banca dell’Etruria, avviata nel febbraio 2015). Al contempo ci si è preoccupati di giocare d’anticipo sul completo decorso dei termini applicativi previsti per la medesima Direttiva, così da evitarne le conseguenze. É noto infatti che le fonti comunitarie hanno indicato la data del 31 dicembre 2014 come termine di recepimento negli ordinamenti nazionali, lasciando però la possibilità di dare decorrenza applicativa al 1° gennaio 2016 al nuovo istituto del bail in. Un termine più ampio accordato in rapporto al carattere di questo strumento ed agli effetti particolarmente invasivi, che ne derivano per alcune libertà fondamentali. Questi sono certamente innovativi e, per certi aspetti, temibili, ma lo sono ora e lo saranno anche in futuro, quando, secondo un comune criterio probabilistico, si proporranno altre situazioni di dissesto. Attraverso l’adozione del d.l. n. 183 del 2015 si è finito allora per determinare un trattamento, in capo ai soggetti coinvolti, non replicabile per le prossime analoghe situazioni di crisi, quando, a legislazione invariata, il burden sharing potrà contare sulla pienezza di strumenti. La scelta ha dato risposta alla volontà di contenere le conseguenze del dissesto, ma l’evidente strumentalità rispetto al caso concreto fa pensare ad una via d’uscita obbligata, aprendo il campo ad obiettive perplessità in punto di adozione di regole, che hanno una diversa capacità d’incidere sulla sorte degli investimenti e dei depositi, in dipendenza dell’accurata sincronia con l’applicabilità della BRRD.

La vicenda ha avuto un antefatto nel 2014 con la cessione di Banca Tercas, in amministrazione straordinaria, ad altra Banca, che ha registrato l’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi, in forma alternativa al rimborso dei depositanti, a copertura di perdite per 265 milioni di euro. É possibilità prevista dall’art. 96bis TUB e dallo statuto del Fondo, quando l’operazione comporti minor costo e ridotto impatto sistemico. La Commissione UE ha però osservato, che la partecipazione delle banche al Fitd ha natura obbligatoria e costituisce anzi presupposto per accedere all’attività creditizia, inoltre il Fondo è sottoposto a stringente controllo dell’Organo di Vigilanza, perciò ogni sua decisione viene assunta su mandato pubblico e costituisce aiuto di Stato, di qui la necessità per azionisti e creditori dell’ente creditizio di partecipare all’assorbimento delle perdite. É così che l’intervento del Fitd non è stato ammesso. Il successivo progetto è stato articolato, sempre con ricorso al Fondo interbancario, anche per Banca Marche, Cariferrara e Banca Etruria, prevedendo questa volta, oltre all’azzeramento di riserve ed azioni, anche la conversione delle obbligazioni subordinate e la loro riduzione di valore. Senonché il ricorso ad aiuto di Stato – concretizzatosi con l’intervento alternativo del Fitd – è espressamente considerato dalla BRRD come causa di dissesto per l’ente creditizio, di conseguenza non è possibile utilizzare quel Fondo senza porlo in risoluzione. I presupposti di necessità ed urgenza del d.l. si sono così connessi a fini sostitutivi del ricorso al Fondo interbancario di tutela dei depositi, quindi un intervento necessario per tamponare l’imprevista inagibilità di altra soluzione. É la stessa Banca d’Italia ad indicare come il percorso sia stato forzato dalla valutazione della Commissione UE, presa malgrado il progetto fosse sostenuto dalle descritte misure di attuazione del principio di condivisione delle perdite.

L’uso di un sistema di garanzia dei depositi in forma alternativa al rimborso dei depositanti, per evitare il fallimento dell’ente, è altresì consentito dall’art. 11, par. 3, Direttiva 2014/49 UE (DSGD), nel rispetto di condizioni espressamente declinate e fuori dalla procedura di risoluzione. É però la qualificazione come aiuto di Stato del ricorso al Fitd a spingere verso la necessità di porre in risoluzione gli enti creditizi interessati, integrando un caso di sostegno pubblico straordinario. La Commissione, nell’esprimere la sua valutazione, si è attenuta alla propria Comunicazione sul settore bancario del luglio 2013, dove si afferma di non considerare aiuto di Stato l’intervento di un sistema di garanzia, salvo che questo agisca su mandato pubblico, cioè secondo modalità, che è lo Stato ad indicare e determinare. Per ammettere un intervento alternativo al rimborso dei depositanti da parte di un sistema di garanzia dei depositi, non basta la provenienza privata dei fondi e nemmeno la condivisione delle perdite, come avviene nel nostro caso, ma è necessaria la volontarietà del concorso, decisa in autonomia dai partecipanti al sistema stesso, senza intromissione pubblica. In sostanza una scelta rimessa alle regole del mercato, per evitare che lo Stato possa determinare distorsioni al regime di libera concorrenza. É in questo ambito, che l’intervento preventivo disciplinato dalla DSGD esprime il suo effet utile, sostiene la Commissione nella lettera to clarify inviata il 19 novembre scorso al Governo italiano.

Nella specie la proposta formulata dalle autorità nazionali, come si è detto, dava applicazione al private burden sharing, coinvolgendo azionisti e detentori di obbligazioni subordinate e nel sito del Ministero dell’Economia si può leggere che: «Il sacrificio dei creditori subordinati sarebbe stato significativamente inferiore rispetto a quello conseguente alle successive operazioni di risoluzione». Non sono quindi in discussione l’affermazione del principio di compartecipazione alla copertura delle perdite, né la natura di aiuto di Stato del sostegno del Fitd, bensì le conseguenze dell’intervento del sistema di garanzia dei depositi, che la lettura nazionale delle regole considerava ammissibile fuori da un programma di risoluzione, ponendo l’accento sul quantum del sacrificio richiesto ai detentori di obbligazioni subordinate. Sembra qui prevalere l’attenzione alla misura del sacrificio imposto a investitori e risparmiatori, per evidenti ragioni di loro tutela, mentre le indicazioni della Commissione puntano piuttosto ad escludere un’ingerenza pubblica, capace di provocare distorsioni al regime di libera concorrenza.

Si tratta però di finalità che trovano composizione nell’impianto regolatorio di settore, informato alla ricerca della migliore stabilità dei mercati, funzionale alla salvaguardia del buon andamento degli enti creditizi e alla tutela di ogni loro avente causa. L’attuazione del burden sharing è misura volta a realizzare «un’adeguata condivisione degli oneri da parte di coloro che hanno investito nella banca» ( Banking Communication, 2013, 15), agendo al contempo sul contenimento dell’intervento pubblico, cioè degli oneri imposti alla generalità dei contribuenti. L’ottica che guida verso l’incremento delle dosi di responsabilità collettiva, collegate alla proprietà privata è d’altronde ben conosciuta dal nostro ordinamento interno, che anzi ne esalta la funzione sociale tra i propri principi costituenti. Semmai è possibile considerare come sia la nozione di fonte comunitaria a ricevere un’impronta nuova, che segna l’affermazione di un’esplicita apertura alle istanze di sistema, attraverso il maggior sacrificio di libertà individuali. La disciplina ricevuta dal settore creditizio attribuisce alla proprietà funzioni, che hanno indiscutibili riflessi sul piano sociale. Per altro verso il concorso dei privati nell’assorbimento delle perdite non è soltanto freno all’azzardo morale e incentivo all’investimento consapevole, ma presidio della stessa libertà d’impresa, nel momento in cui diviene argine all’intervento pubblico. La possibilità di accesso al sostegno pubblico nelle situazioni di crisi dell’impresa bancaria, postula così la necessità di misurare il concreto effetto di ogni azione idonea a falsare o minacciare di falsare la concorrenza. A tal fine la BRRD va a disciplinare l’ordinata gestione dei processi di crisi, dettando tempi e modalità di attenta misurazione dell’adeguatezza e proporzionalità del ricorso a modalità di riduzione di valore degli strumenti finanziari, detenuti da azionisti e creditori. In altri termini è proprio attraverso l’adozione delle misure di risanamento e risoluzione, che sono attivate le previste valutazioni, volte a pesare l’entità del concorso dei privati nell’assorbimento delle perdite, sotto il controllo dell’Autorità preposta.

La regolazione delle possibilità d’intervento dei sistemi di garanzia dei depositi trova ora fonte nella DSGD, che ne delimita il ruolo in rapporto alla risoluzione dell’ente creditizio e detta la possibilità di agire in via alternativa, cioè con metodi, che la relazione allo schema di decreto legislativo di attuazione, ricorda: «[…] già ben conosciuti dal nostro ordinamento ( la Direttiva si è ispirata alle soluzioni italiane) e costituiscono la modalità ordinaria dell’intervento dei sistemi di garanzia, poiché è meno costosa e ha impatti sistemici meno rilevanti». Un esplicito rinvio all’esperienza nazionale, sin qui vissuta, nella gestione delle crisi bancarie, che dà conto di una storia positivamente valutata sotto il profilo dei costi e del contenimento degli effetti sul sistema. Peraltro la valutazione di convenienza del ricorso all’azione preventiva e/o alternativa, fondata sul minor costo, non può sottrarsi alla comparazione con gli eventuali effetti distorsivi per il mercato interno, che ne possono derivare. La preferenza per un percorso esterno alla risoluzione, sembra invece intonarsi a schemi già collaudati, delineando una forma di sostegno, che appare però dissonante rispetto agli orientamenti descritti ed esposta al rischio di determinare il quantum di condivisione delle perdite, senza poter contare sui presidi e sulle responsabilità di valutazione ivi previsti.

Nel nostro Paese, nel vigore delle vecchie regole, l’esplicito ricorso agli aiuti di Stato è stato piuttosto limitato, ma le operazioni di salvataggio di banche in difficoltà, definite con l’attivo concorso del sistema creditizio e, talvolta, l’intervento dei fondi di garanzia, hanno salvaguardato i creditori e, in qualche misura, gli azionisti, ingenerando la diffusa opinione che, soprattutto i primi, non fossero esposti a perdite effettive. La soluzione trovata in numerose occasioni ha consentito di non gravare le finanze pubbliche ed ha avuto il merito di evitare l’epilogo liquidatorio, ma inevitabilmente ha finito per mascherare il contenuto di rischio degli investimenti. La soglia di attenzione del risparmiatore, alla ricerca di un miglior rendimento, si è indebolita, coniugandosi con la richiesta del sistema di ottenere mezzi finanziari idonei al proprio rafforzamento patrimoniale. Non può sfuggire infatti come l’ampia diffusione di strumenti con caratteristiche idonee, per essere classificati tra i fondi propri della banca è conseguenza dei più stringenti requisiti patrimoniali, adottati allo scopo di conferire maggiore stabilità ai mercati e rafforzare la capacità degli enti creditizi di resistere anche a crisi sistemiche. Non c’è dubbio però che la solidità delle banche è il primo elemento di garanzia per gli stessi risparmiatori e investitori, capace di fare argine contro i rischi d’instabilità. La conseguente enfasi che si è generata sul punto non può quindi essere dissociata da una ancor più consapevole e libera scelta d’acquisto. Alle regole di offerta degli strumenti finanziari è affidato il compito di garantire un’informazione piena, corretta ed efficace. Costituiscono il nodo più sensibile di connessione con gli investitori, da vigilare con estremo rigore, a maggior ragione dove l’azione pubblica, anche senza diretto ricorso a fondi dello Stato, ha attenuato la percezione del rischio. Nella specie però l’evidenza è di un rifiuto sociale generalizzato degli effetti delle nuove regole, rivelatore quanto meno di una divaricazione tra percezione sociale e norma giuridica, ma che sottolinea la necessità di una migliore efficacia proprio dal lato della trasparenza informativa.

Per tempi e metodi la soluzione adottata, sotto la spinta della cogente indicazione della Commissione, sembra preoccuparsi di evitare il bail in. É questo lo strumento che caratterizza maggiormente il processo di risoluzione e si identifica con le più ampie modalità previste di partecipazione all’assorbimento delle perdite da parte dei privati creditori. Costituisce il nucleo più significativo della nuova disciplina ed è espressione proprio del nuovo equilibrio individuato tra pubblico e privato nella responsabilità di fornire adeguata tutela agli obiettivi di stabilità. Certamente delinea un nuovo e deciso profilo di rischio per gli investitori, ma ha potuto contare su tempi di recepimento adeguati, utili a consentire un approccio consapevole. Peraltro il bail in non si sottrae alla comparazione che l’Autorità di risoluzione deve compiere, con la valutazione «equa, prudente e realistica delle […] attività e passività (dell’ente creditizio)», definita dagli artt. 23 e s. d.lg. n. 180 del 2015, per individuare «le azioni di risoluzione più appropriate», anche in combinazione tra loro. Non è quindi strumento da utilizzare necessariamente, ma da considerare insieme agli altri previsti. Nel nostro caso però gli elementi di giudizio in possesso dell’Autorità devono aver indicato che la situazione richiedeva il ricorso alle misure più incisive ed, a questo punto, l’urgenza ha circoscritto la scelta. Il decreto ha sollevato l’Autorità dal compito di considerare l’uso del bail in ed ha portato ad un’attuazione del principio di partecipazione alle perdite di azionisti e creditori, attuato nella misura possibile al momento. Il d.l. n. 183 del 2015 è frutto dell’indubbia necessità di agire rapidamente, ma, oltretutto, se esaurisse in questo il suo scopo, aprirebbe un ovvio interrogativo sulla capacità dei processi decisionali definiti in via ordinaria di garantire analoga prontezza. In questo senso si deve anche osservare che il potere attribuito all’Autorità di risoluzione non costituisce riconoscimento di una totale discrezionalità amministrativa, ma si sostanzia in valutazione fondata su metodologie di contenuto tecnico, estranee alla mera ponderazione degli interessi in gioco. Perciò un potere di giudizio e intervento, che si esprime attraverso il risultato di un’analisi, oggettivamente riscontrabile, delineata per fornire salvaguardia all’interesse pubblico ed a tutti i soggetti interessati. Le attività di valutazione, in questa prospettiva, assumono rilievo centrale, perché deputate all’individuazione degli elementi che portano alle decisioni, che indirizzano il programma di risoluzione, perciò a contestualizzare l’azione individuata nella situazione concreta, dando attuazione alle regole previste, secondo i criteri indicati dalla norma di riferimento. Con il d.l. è stata circoscritta la discrezionalità dell’Autorità di risoluzione, che nella valutazione degli strumenti individuati non ha potuto contare sul bail in. A prescindere dalla contingente compressione dei tempi d’intervento così ottenuta, desta perplessità proprio la riduzione dello spettro di scelta, che non discende tanto dal mancato ricorso al Fitd, quanto dall’obiettivo di frenare la partecipazione all’assorbimento delle perdite da parte di azionisti e creditori. La decisione assunta sembra così forzare i ripetuti criteri di equa, prudente e realistica valutazione, costretti a misurarsi con la temporanea, ridotta applicabilità del nuovo ordinamento, mentre sono al tempo stesso ben noti principi e regole che danno corpo alla sistematica disciplina di settore.

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