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Alcune riflessioni sulla riforma delle banche di credito cooperativo

L’integrazione, l’ammodernamento e l’efficientamento del sistema del credito cooperativo nazionale sono obiettivi non più rinviabili. Secondo ciò che si percepisce, il risultato del processo di riforma dovrebbe condurre a un modello di gruppo cooperativo paritetico, con una o più capogruppo costituite in forma di S.p.A. (dalle ultime notizie l’orientamento sembra sia quello di costituire un unico gruppo), il cui capitale sia detenuto per almeno un terzo dalle BCC aderenti al gruppo.

Stefano Dell'Atti
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E’ in fase di definizione il processo di riforma del sistema del credito cooperativo italiano, che è destinato a trasformare radicalmente un settore che ha da sempre avuto una posizione di rilievo nel sistema bancario nazionale, svolgendo altresì un ruolo fondamentale per l’economia del nostro Paese per via della peculiare e capillare attività di sostegno svolta a favore dei territori di riferimento. Le 370 banche di credito cooperativo (BCC) italiane operano con le proprie 4.000 filiali in circa 2.700 comuni italiani e a loro fa capo oggi circa il 15 per cento degli sportelli e intorno al 6 per cento dell’attivo complessivo del sistema bancario nazionale.

Questo progetto di riforma giunge al culmine di una fase non semplice per il settore del credito cooperativo nazionale. Nell’ultimo quadriennio, infatti, l’elevata volatilità dei mercati finanziari e la lunga fase congiunturale sfavorevole, che ha colpito profondamente il tessuto produttivo nazionale, hanno determinato il ridimensionamento, dimensionale e operativo, di molte BCC, la loro contrazione numerica complessiva (considerato che a fine 2011 si contavano 411 BCC in confronto alle 370 di giugno 2015) e il marcato deterioramento della qualità dei prestiti, con l’incidenza dei crediti deteriorati sul totale dei prestiti salita dal 10,4 al 18 per cento tra fine 2011 e fine 2014. Il peggioramento della qualità del portafoglio prestiti delle BCC italiane è confermato anche dall’incidenza delle sofferenze sul totale dei crediti, che è più che raddoppiata (dal 4,5 al 9,1 per cento nel medesimo periodo). Negli ultimi quattro anni, quindi, a seguito di situazioni di crisi e di processi di concentrazione fra banche del sistema, si sono perse 41 BCC e il grado di rischiosità medio del portafoglio prestiti dell’intero sistema cooperativo del credito si è notevolmente elevato, in presenza di immutati ostacoli alla raccolta di capitali sul mercato. Probabilmente, oltre alla fase congiunturale sfavorevole, l’incremento del grado di rischio dell’attivo delle BCC può anche essere riconducibile a scelte gestionali e allocative non sempre trasparenti e a volte rappresentative di una relazione non equilibrata e sana con il territorio di insediamento. Alla luce di tutto ciò appare evidente come l’integrazione, l’ammodernamento e l’efficientamento del sistema del credito cooperativo nazionale siano obiettivi non più rinviabili. Occorre ancora comprendere però se la strada che si sceglierà di intraprendere per perseguire questi ormai ineludibili obiettivi sarà effettivamente la migliore possibile.

Secondo ciò che si percepisce, il risultato del processo di riforma dovrebbe condurre a un modello di gruppo cooperativo paritetico, con una o più capogruppo costituite in forma di S.p.A. (dalle ultime notizie l’orientamento sembra sia quello di costituire un unico gruppo), il cui capitale sia detenuto per almeno un terzo dalle BCC aderenti al gruppo. In un siffatto gruppo paritetico, in cui le società affiliate hanno forma cooperativa, i principali diritti e obblighi delle parti dovrebbero derivare da fonte contrattuale più che da legami partecipativi, ovvero essere prescritti in un contratto di “coesione” in base al quale le singole BCC aderenti al gruppo si assoggettano ai poteri di direzione e coordinamento della capogruppo. La capogruppo dovrebbe anche prevedere un meccanismo di incentivi, oltre che di sanzioni, per le banche aderenti, in modo da premiare le banche migliori con maggiori autonomie gestionali che discenderebbero da un livello di efficacia della loro azione di governo nella gestione dei rischi. Le deleghe di poteri gestionali, oltre che di direzione e coordinamento, dalle controllate alla capogruppo dovrebbero infatti rispettare criteri di proporzionalità in base alle diverse situazioni aziendali, con margini di autonomia, quindi, più ampi per le BCC più virtuose.

In un siffatto modello organizzativo, le BCC aderenti al gruppo sarebbero verosimilmente chiamate a svolgere prevalentemente la funzione distributiva, operando essenzialmente come banche rete a supporto del territorio di insediamento. Non è difficile quindi prevedere resistenze da parte delle BCC meglio gestite e più dinamiche, in ragione di un potenziale timore di vedersi limitata l’autonomia gestionale, con possibili effetti a livello di compagine societaria e di relazioni con la clientela. Al fine di garantire l’efficienza operativa del/i neonato/i gruppo/i sarà, infatti, necessario razionalizzare la rete distributiva, risolvendo i significativi problemi di sovrapposizione territoriale e duplicazione degli sportelli delle singole BCC aderenti al/i medesimo/i gruppo/i e ciò provocherà senz’altro un sovradimensionamento delle strutture, sotto il profilo del numero di dipendenti e del numero di amministratori che in alcune banche di credito cooperativo risultano essere pletorici. Un siffatto modello organizzativo sembra quindi guardare eccessivamente alla competitività esterna del gruppo cooperativo rispetto alla necessaria competizione interna fra le singole BCC aderenti, che stimolerebbe certamente le stesse nel perseguire migliori performance economiche oltre che un approccio realmente customer oriented. La razionalizzazione della rete distributiva è un aspetto della riforma che necessariamente va ben ponderato a livello sia di gruppo nel suo complesso che a livello di singola banca coinvolta. In particolare, a riforma attuata, si dovrà garantire bilanciamento fra coordinamento centrale (efficienza e governo dei rischi) e decentramento commerciale (efficacia) per preservare il vantaggio competitivo delle banche locali basato sulla conoscenza diretta del territorio.

Attraverso la costituzione di uno o più gruppi cooperativi con a capo una o più holding costituite in forma di S.p.A., il principale obiettivo che la riforma si prefigge è quello di favorire la patrimonializzazione del gruppo e, di riflesso, delle singole BCC aderenti, eliminando gli attuali ostacoli alla raccolta di capitali sul mercato. Oggi, infatti, l’unica opzione a disposizione per le BCC per accrescere il proprio patrimonio è rappresentata dall’autofinanziamento e questo espone inevitabilmente le singole BCC, e di riflesso tutto il sistema del credito cooperativo nel suo complesso, a tensioni patrimoniali difficilmente risolvibili in casi di crisi gestionali. Il contratto di “coesione”, su cui si fonderebbe il gruppo cooperativo, dovrebbe invece prevedere un sistema di garanzie incrociate tra le banche coinvolte che permetta di mobilitare, all’occorrenza, le risorse patrimoniali e liquide interne al gruppo, al fine di rispettare la disciplina prudenziale e favorire quindi una gestione interna di eventuali crisi patrimoniali e di liquidità delle banche aderenti ed evitare il rischio di contagio dell’intero sistema. Ciò, però, genera una serie di riflessioni e interrogativi che le banche del sistema dovrebbero porsi. Innanzitutto, in un costituendo sistema di gruppo, si ritroveranno singole realtà bancarie eterogenee tra di loro sotto il profilo dimensionale, di governance, di assetti organizzativi, di sistemi di gestione del rischio che renderebbero quelle realtà più robuste maggiormente penalizzate, se all’interno del gruppo stesso trovassero collocazione anche quelle banche più vulnerabili e meno solide. Il gruppo paritetico cooperativo, pertanto, dovrebbe assicurare delle condizioni di effettiva pariteticità, che presuppongono una situazione di efficienza delle singole banche coinvolte ed una condivisione “paritaria” dei rischi; situazioni queste ultime non prive di criticità, nel momento in cui si dovessero verificare situazioni di eccessiva disomogeneità tra le banche del gruppo con possibili riequilibri e bilanciamenti tra situazioni più efficienti e situazioni meno efficienti.

Problema di non secondaria importanza riguarderebbe la modalità di adesione al gruppo, specie nel momento in cui si dovesse propendere per la creazione di più gruppi. L’adesione scaturirebbe da una condivisone di interessi (come, a titolo di esempio, il service informatico), da una cultura, da una storia e da una tradizione che lega particolari realtà, da un grado di compatibilità a livello territoriale o da differenti motivazioni di “vicinanza”?

Altri elementi da considerare rigurdano, poi, i poteri attribuiti alla capogruppo, le modalità di fuoriuscita dal gruppo ed il futuro destino delle BCC oggetto di exit anche alla luce degli orientamenti della Commissione europea, in base ai quali gli interventi dei Fondi di Garanzia potrebbero considerarsi come aiuti di Stato, ed alla luce dei recenti orientamenti in tema di crisi bancarie.

E’ evidente quindi come la riforma sia destinata ad avere successo solo se si dimostrerà nel tempo in grado di raggiungere un complesso equilibrio fra modernità e tradizione, efficienza e mutualità oltre che fra sostenibilità sociale e apertura al mercato. Il perseguimento degli ambiziosi obiettivi della riforma, che avrebbe però probabilmente richiesto una genesi più partecipata e condivisa all’interno del mondo cooperativo e che richiederà certamente in futuro un’applicazione della stessa decisa e non ammorbidita dalle inevitabili resistenze di alcune parti coinvolte, provocherà, infatti, inevitabilmente dei significativi costi sociali, dovuti alla necessaria chiusura degli sportelli e agli esuberi di personale delle BCC del medesimo territorio che confluiranno nello stesso gruppo. Costi sociali che rischiano di alimentare un clima non certamente positivo fra chi poi dovrà applicare questa riforma, spiegarla e promuoverla sul territorio, sancendone quindi il successo o il fallimento. Queste potenziali criticità della successiva fase di implementazione della riforma sono state forse sottovalutate e probabilmente si sarebbero potute prevenire con maggiore oculatezza e lungimiranza, coinvolgendo maggiormente le diverse componenti del mondo cooperativo nella genesi del progetto di autoriforma e favorendo quindi un clima di condivisione e partecipazione. Non sarà, infatti, assolutamente semplice perseguire gli ambiziosi obiettivi che si pone questa riforma in un contesto competitivo divenuto negli anni sempre più complesso e ciò richiederà uno sforzo congiunto e comune di tutte le componenti del sistema del credito cooperativo nazionale. Solo un sistema unito e coeso, infatti, potrà ambire a concretizzare effettivamente gli auspici di questa riforma, consentendo quindi al credito cooperativo di riappropriarsi con rinnovato slancio del suo naturale ruolo di principale sostegno delle economie locali, incrementando la stabilità patrimoniale e l’efficienza gestionale del sistema e dando quindi nuovo impulso all’erogazione di credito in condizioni di sana e prudente gestione.

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