Dopo gli interventi sui tassi ufficiali, la Bce punta sul quantitative easing per far ripartire gli investimenti. Da marzo le banche centrali nazionali acquisteranno obbligazioni dell’area euro con elevato rating creditizio. Intanto il deprezzamento della moneta unica…
Con la recente decisione del Consiglio Direttivo della Banca Centrale Europea, l’allentamento monetario (il quantitative easing) attraversa l’Atlantico e dopo aver interessato Stati Uniti e Gran Bretagna (per non parlare del Giappone) arriva finalmente anche nella vecchia Europa continentale, nonostante le forti resistenze e i dubbi dei tedeschi e di qualche altro intransigente “falco” del Nord. A partire da marzo, la Bce integrerà i programmi espansivi già attivati (Covered Bond Purchase Program – Cbpp e Asset Backed Securities Purchase Program – Abspp) con acquisti di obbligazioni emesse da istituzioni europee, da agenzie o da singoli Stati membri dell’Eurozona, purché investment grade e denominati in euro.
Gli acquisti potranno arrivare fino a 60 miliardi al mese, saranno svolti dalle banche centrali nazionali da marzo 2015 fino a settembre 2016 e oltre, se necessario, e verranno effettuati in base alle quote dei singoli paesi nel capitale della Bce. Per quello che riguarda i titoli italiani, gli acquisti potrebbero arrivare a circa 130 miliardi di euro.
Per effetto del nuovo programma, il bilancio della Bce dovrebbe aumentare di oltre 1.100 miliardi di euro, e tornare ai livelli elevati raggiunti immediatamente dopo le due Long term Refinancing Operations di novembre 2011 e febbraio 2012. La decisione del Consiglio Direttivo ha sorpreso i mercati per quello che riguarda la dimensione, con una espansione del bilancio superiore alle attese. Ma anche per aver predisposto un meccanismo molto conservativo di ripartizione del rischio, assicurando che solo il 20% del rischio complessivamente assunto dalla Bce sia condiviso, mentre il restante 80% rimanga a carico delle singole Banche centrali nazionali.
La decisione della Bce arriva al termine di un altro anno di stagnazione dell’economia europea, con un tasso di inflazione medio che si avvicina pericolosamente alla soglia dello zero e molti paesi membri già abbondantemente in deflazione. Dal punto di vista del mandato della Banca Centrale Europea, quest’ultima è quindi clamorosamente “insolvente” ad oggi, sia pure considerando la forte esimente costituita dalle pressioni al ribasso sui prezzi indotte dal calo del petrolio.
Gli interventi sui tassi ufficiali, considerata anche la mossa di portare in territorio negativo i tassi sui depositi per cercare di far ripartire il mercato interbancario e quello del credito, non hanno sin qui prodotto effetti di rilievo. Sarà ora, con il Qe, la volta buona? Difficile a dirsi, certamente l’abbondanza di liquidità dovrebbe trasmettersi positivamente all’economia reale, attraverso la riduzione del costo del credito, ma soprattutto attraverso l’iniezione di fiducia che la “svolta” nella decisione di politica monetaria dovrebbe portare sui mercati. Molta della insoddisfacente dinamica macroeconomica europea dipende infatti non solo dalla stagnazione dei consumi indotta dalla prolungata riduzione nel reddito disponibile dopo le crisi dei subprime e dei debiti sovrani, ma anche e soprattutto dal vertiginoso crollo negli investimenti, una variabile sulla quale le aspettative future e l’ottimismo degli agenti rivestono una importanza straordinaria.
Le stime disponibili ad oggi, circa l’effetto previsto sul tasso di inflazione di una espansione monetaria simile a quella intrapresa dalla Bce, variano in una forchetta compresa tra 0.4 e 1% in termini di aumento del tasso di inflazione a distanza di un anno. Bisognerà valutare il combinato disposto di questa azione con altri due fattori, l’andamento del prezzo delle materie prime e il timing, oltre che l’intensità, della plausibile normalizzazione della politica monetaria negli Usa, dove ormai la crescita è ripartita e il tasso di disoccupazione è prossimo al suo valore ritenuto “di equilibrio”, di poco superiore al 5%.
Di sicuro, un effetto importante per i maggiori paesi europei il Qe lo ha già prodotto, e in misura rilevante anche ben prima di essere “svelato” nei suoi dettagli operativi. Il deprezzamento del cambio dell’euro sta infatti stimolando l’export dei paesi membri e innescando meccanismi di contenimento delle pressioni deflazionistiche provenienti dal calo delle quotazioni del petrolio. Non c’è dubbio che la dinamica futura del tasso di cambio rimane una variabile da monitorare con attenzione per valutare possibili rischi di “upside” nelle performance di crescita dei maggiori paesi esportatori nell’area, Germania, ma anche Italia. Ovviamente non mancano elementi di fragilità al quadro delineato, primo fra tutti la tenuta della casa comune dell’Eurozona, in seguito alle elezioni in Grecia e al timore che una eventuale “uscita” di un paese torni a innescare fenomeni incontrollabili di contagio e speculazione. Proprio per questo motivo, la mossa espansiva della Bce non deve rallentare il percorso delle necessarie riforme strutturali in Italia, Spagna e Francia. Riforme che non devono necessariamente ispirarsi a una austerità ottusa, ma devono riuscire a riposizionare radicalmente le rispettive economie su nuovi paradigmi dinamici e favorevoli alla crescita, di maggiore apertura al mercato nell’ambito di una regolamentazione efficace e coerente.