approfondimenti/politica economica
Le inutili illusioni sulla riduzione della spesa pubblica

L’idea in base alla quale la riduzione della spesa pubblica volta ad abbassare la pressione fiscale sia la via obbligata da percorrere in un periodo di crisi continua ad essere al centro dei dibattiti di politica economica in Italia. Tuttavia, le analisi sui livelli di spesa in Europa dicono che il Paese non ha una spesa primaria in rapporto al PIL elevata. In particolare, la spesa pro-capite primaria dell’Italia è notevolmente più bassa di quella della Francia, della Germania e del Regno Unito. Le regole fissate dal Patto di Stabilità Interno e la riduzione progressiva dei trasferimenti dallo Stato agli enti territoriali ed ai ministeri hanno provocato effetti largamente disfunzionali e degenerativi, riducendo le risorse disponibili per la spesa e non generando un effettivo ridimensionamento del fabbisogno di spesa.

Giuseppe Maria Pignataro
Pignataro

Dal 2008 ad oggi sono trascorsi otto anni di crisi ed il refrain sulla necessità di ridurre la spesa pubblica per riuscire parallelamente ad abbassare la pressione fiscale continua ad occupare il centro del dibattito, a fronte di risultati sempre non entusiasmanti.

Ora, dopo cinque commissari comparsi fugacemente sulla scena e con una pressione fiscale cresciuta nel frattempo di due punti di PIL, nonostante i reiterati e irrazionali tagli lineari, è doveroso affrontare il tema partendo da una diagnosi profonda.

Le analisi sui livelli di spesa in Europa (MEF, La spesa pubblica in Europa 2000-2013) dicono che l’Italia non ha una spesa primaria in rapporto al PIL elevata. Ci collochiamo al di sotto della media della UE di circa 1 p.p. e siamo in linea con la media dell’area Euro.

Secondo la classificazione COFOG (Classification of Function of Government) su 28 paesi UE nei servizi generali siamo al decimo posto, nella difesa siamo all’ottavo posto, nell’ordine pubblico siamo al decimo, negli affari economici al ventiduesimo, nell’istruzione al ventitreesimo, nella protezione sociale al settimo.

Anche le rilevazioni in termini assoluti conducono alle stesse conclusioni: la nostra spesa pro-capite primaria (11.632 euro) è notevolmente più bassa di quella della Francia (17.161 euro), della Germania (14.178 euro) del Regno Unito (13.069 euro), mentre è più alta di quella della Spagna (9.228 euro).

Se osserviamo l’andamento della spesa primaria pro-capite dal 2000 al 2013, rileviamo che l’Italia ha avuto un incremento di 3.300 euro, la Francia di 5.400 euro, la Spagna di 3.600 euro, il Regno Unito di 3.800 Euro e la Germania di 3.700 euro.

Peraltro nella UE siamo l’unico grande paese insieme alla Germania ad aver un livello di entrate pro-capite superiore al livello di spesa primariapro-capite (+578 euro l’Italia, +724 euro la Germania – anno 2013) mentre ben 19 paesi hanno saldi negativi.

Gli strumenti maggiormente utilizzati per contenere la spesa pubblica nel nostro paese sono stati le regole fissate dal Patto di Stabilità Interno e la riduzione progressiva dei trasferimenti dallo Stato agli enti territoriali ed ai ministeri (i cosiddetti tagli lineari). Questi provvedimenti attuati prevalentemente per gestire le emergenze e senza un’attenta e oculata programmazione economico-finanziaria, hanno prodotto una pura riduzione di risorse disponibili per la spesa e non un effettivo ridimensionamento del fabbisogno di spesa. Per questo hanno finito per provocare effetti largamente disfunzionali e degenerativi quali:

  • una crescita abnorme dei debiti commerciali delle Pubbliche Amministrazioni verso le imprese non pagati alle scadenze, che ha costituito una delle principali cause di dissesto di moltissime realtà economiche, direttamente o indirettamente collegate al fenomeno;
  • un ridimensionamento di interi settori produttivi come quello dei lavori pubblici e della sanità convenzionata che ha generato una rilevantissima riduzione di prodotto annullando, di fatto, i benefici complessivi sulle finanze pubbliche;
  • una contrazione drastica della spesa più idonea a creare sviluppo e cioè gli investimenti pubblici, crollati dopo la crisi;
  • incrementi della tassazione a livello locale passata da 11,4 miliardi del 1995 a 21,9 miliardi del 2014 (Corte dei Conti – rapporto sulla finanza pubblica 2015).

Occorre peraltro tenere ben presenti alcuni principi e aspetti macroeconomici basilari.

  • La spesa pubblica si può ridurre senza provocare effetti depressivi sull’economia quando il settore privato è pronto ad occupare gli spazi lasciati vuoti; ma ciò non accade in situazioni in cui l’effetto positivo sulla riduzione delle aliquote fiscali sui fattori produttivi non induce ad investire e a produrre a causa delle fragilità diffuse e delle incertezze sul futuro che gravano sul sistema paese.
  • Nel mondo occidentale ed in Europa in particolare, il ruolo del settore pubblico si è esteso a partire dal secondo dopo guerra con l’ampliarsi dello Stato sociale; un sistema non sovvertibile in modo semplicistico in breve tempo.
  • In Italia la spesa corrente primaria evidenzia un andamento inerziale crescente generato da vari fattori: invecchiamento della popolazione, crescita della disoccupazione e della povertà, nuovi bisogni da soddisfare come l’adeguamento tecnologico; fenomeni non comprimibili senza mettere in conto effetti disfunzionali collaterali.
  • Non ci può essere correlazione diretta certa tra riduzione della spesa pubblica e riduzione della pressione fiscale, né nel breve né nel medio termine, se il PlL nominale non cresce a causa della mancanza di forza propulsiva in altri agenti nevralgici vitali per l’economia di un paese.
  • Secondo il CBO (Congressional Budget Office) in una fase di stagnazione e/o di tassi vicini allo zero, il moltiplicatore della spesa primaria è pari, in media, all’1,5%, l’impatto della riduzione delle imposte nette è invece minore perché si traduce solo in parte in maggiore domanda.
  • Il principale paese delle economie avanzate ha affrontato la crisi accrescendo di oltre il 50% la spesa pubblica e la spesa sociale di oltre il 70%, ottenendo risultati brillanti sia in termini di crescita reale che di livelli occupazionali.
  • Sul piano controfattuale, la spesa pubblica per essere efficacemente ridotta in rapporto al PIL deve prima essere classificata correttamente distinguendo quella utile da quella inutile, stabilendo il grado di produttività della componente necessaria e solo quando ci sono altri fattori macroeconomici che agiscono in funzione espansiva sull’economia e sulla crescita della spesa privata si può intervenire utilmente mediante cut-off netti di singole voci.

In definitiva:

  • cercare di eliminare le spese eccessive, inutili, quelle derivanti dall’illegalità, azzerare i tanti privilegi ingiustificati, è un dovere ineludibile ma i risparmi realizzati in periodi di stagnazione del ciclo, devono essere contestualmente spesi per favorire il potenziale di sviluppo dell’economia;
  • la spesa pubblica primaria italiana non necessita di essere ridimensionata ma di essere ottimizzata sensibilmente attraverso due azioni entrambe imprescindibili: efficientare i processi di formazione della spesa e snellire l’apparato pubblico, eliminando tutte le strutture pletoriche e ridondanti;
  • per realizzare questi obiettivi occorre una volontà politica forte, una metodologia appropriata e tempi di realizzazione tali da non provocare scompensi e disequilibri collaterali, non coerenti con gli obiettivi prioritari di risanamento e di rilancio economico che il paese deve perseguire in questa fase molto critica della sua storia.

Altrimenti fra altri otto anni le litanie dei canti e dei controcanti convenzionali sul tema, continueranno a occupare le discussioni mentre il paese persevera a dibattersi vanamente nelle sue contraddizioni croniche.

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