A un quarto di secolo dall'abrogazione della legge bancaria del ’36, la disciplina finanziaria in Italia è dettata da una pluralità di emittenti, pubblici e privati, nazionali ed europei. Al pluralismo delle fonti si accompagna un continuo, magmatico, impetuoso mutamento delle leggi che governano il mercato finanziario, che incide negativamente sulla stabilità della legge, precondizione della sua effettività. L’osservanza diffusa e durevole delle regole di condotta preserva la legge dalla desuetudine e consente alle stesse autorità di supervisione di perseguire, con l’autorevolezza che deriva dall’agire in una cornice normativa nota, certa e condivisa, gli obiettivi della vigilanza. La normazione secondaria può provvedere all’ammodernamento della disciplina regolamentare per seguire i cambiamenti della sottostante realtà economica solo se la norma primaria è caratterizzata da un elevato tasso di conoscibilità, di accessibilità e di stabilità. I recenti sviluppi della regolamentazione nazionale ed europea procedono nell’opposta direzione del labirinto normativo, per il tramite di una opaca (ri)allocazione di funzioni e di una oscura semantica giuridica.
I mutamenti che attraversano la società post – moderna si sono esponenzialmente amplificati dopo la crisi dei mercati finanziari soprattutto a causa di una finanza “geneticamente modificata” (Nardozzi, 2015), che è difficile regolare tanto in ragione della sua vocazione strutturalmente metanazionale quanto dell’indeterminatezza in ordine all’ambito soggettivo (i prestatori dei diversi servizi) e oggettivo (i prodotti) di riferimento. Ciò determina, insieme al pluralismo delle fonti di produzione delle norme giuridiche derivante dal concorso di plurimi emittenti, la difficoltà di individuare le relative intersezioni e le categorie ordinanti ma, prima ancora, il loro censimento e lo stesso reperimento.
Eppure, il lemma “fonti” ben avrebbe potuto declinarsi al singolare fino ad appena cinque lustri or sono. Fatte salve, da un lato, la disciplina generale del codice civile in tema di contratti bancari e, dall’altro, le prime scarne disposizioni di diritto dei valori mobiliari (contenute nella l. n. 216/1974 istitutiva della Consob) e di diritto delle assicurazioni (contemplate principalmente nella l. n. 20/1991 ampliativa dei poteri dell’Isvap e nel c.d. “decreto Cassese” di cui al d.p.r. n. 385/1994), la sola, compiuta fonte del diritto degli intermediari e dei mercati era rappresentata dalla mitica “legge bancaria” del ’36. Nata per porre rimedio (principalmente attraverso la separazione tra credito ordinario e credito speciale) alla crisi della banca mista e per arginare pericolosi e risalenti problemi di stabilità del sistema finanziario, quella legge e il corrispondente assetto di governo del credito hanno imperato per oltre cinquant’anni. Ancora nella prima metà degli anni ottanta del secolo trascorso, la dottrina ne predicava la idoneità a soddisfare le mutevoli esigenze tecniche e politiche che le profonde trasformazioni economiche avevano prodotto, nonché la capacità a gestire soddisfacentemente crisi anche gravi di intermediari e ad impedirne la propagazione (Carbonetti, 1986; Ferri, 1974; Cassese, 1985; Minervini, 1984). Merito, si diceva, delle sottese caratteristiche di flessibilità (ovvero di astratta adattabilità a diversi modelli di sistema bancario) e di tecnicismo (nella duplice accezione di specificità sia delle regole che dell’affidamento della funzione di supervisione ad un organo tecnico e non politico). Soprattutto, aggiungo, merito del fatto che la legge bancaria era avara di principi e di spunti teleologici, essendo impostata secondo un’articolazione per poteri piuttosto che espressamente per funzioni; ciò che, mutatis mutandis, ha nel tempo consentito all’autorità amministrativa il suo impiego in contesti economici e per finalità di supervisione del tutto differenti rispetto a quelli che l’avevano originata.
Le modifiche che si succedono a partire dai primi anni novanta sono principalmente ascrivibili a fonte di diritto sovranazionale: dipendono infatti dal diritto (allora) comunitario, dalle tecniche di armonizzazione minima e di mutuo riconoscimento introdotte dalle leggi – ponte rispettivamente relative alla libertà d’insediamento degli enti creditizi (d. lgs. 14 dicembre 1992, n. 241, attuativo della direttiva 98/646/Cee) e alla libera prestazione dei servizi finanziari (d. lgs. 23 luglio 1996, n. 415, attuativo della direttiva 93/22/Cee). I testi unici del credito (d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385), della finanza (d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) e, più tardi, il codice delle assicurazioni private (d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209) traggono spunto dall’attuazione delle direttive settoriali per procedere a una revisione organica delle sottese discipline al fine di un più generale ammodernamento del diritto dell’economia dei mercati bancario, finanziario, assicurativo. In questa prima fase rimane, risulta forse addirittura rafforzato il principio della discrezionalità che ispira l’azione delle autorità di supervisione dei relativi settori, in particolare attraverso il diffuso impiego della clausola di “sana e prudente gestione”. L’ampia discrezionalità confermata, in specie, in capo all’organo di supervisione bancaria risultava funzionale ai modi, alle forme, alle tecniche attraverso i quali possono efficacemente perseguirsi i delicati obiettivi cui quello risulta preposto.
A fronte dell’ultra cinquantennale stabilità e immutabilità della vecchia legge del ‘36, il Testo unico bancario ha formato oggetto di continui interventi additivi, modificativi, correttivi. Sono trentanove nel recente censimento di uno tra i più autorevoli conoscitori della materia al compimento dei vent’anni dall’entrata in vigore (Costi, 2014), ai quali ora almeno aggiungere (oltre a interventi marginali) le ulteriori, importanti modifiche portate dalla riforma delle banche popolari (di cui al d.l. n. 3/2015 convertito dalla l. n. 33/2015), dal d. lgs. n. 72/2015 di attuazione della direttiva n. 2013/36/Ue, dalla prossima entrata in vigore della legge di delegazione europea 2015 con l’attuazione della direttiva 2014/59 sulle crisi bancarie (e la introduzione del noto bail – in). Le modifiche hanno profondamente inciso sull’originaria struttura del testo normativo in punto di controlli, di morfologia dei soggetti abilitati a operare nel settore creditizio e dei pagamenti (pensiamo solo agli intermediari finanziari, agli istituti di pagamento e di moneta elettronica) e di contenuti delle relative attività, di trasparenza bancaria, ora divenuta plurale per articolarsi, al suo interno, in tre distinte discipline relative, rispettivamente, alle operazioni e ai servizi bancari (Capo I, Titolo VI, artt. 115 segg.); al credito ai consumatori (capo II, artt. 121 segg.); ai servizi di pagamento (Capo II – bis, artt. 126 – bis segg.).
Non quantitativamente dissimili sono stati gli interventi sul Testo unico della finanza, mentre il codice delle assicurazioni private (oggetto di minori modifiche normative anche in ragione della sua più giovane età) è stato profondamente riformato, quanto all’assetto di supervisione, dalla nota l. 7 agosto 2012, n. 135 (istitutiva dell’Ivass) e, più di recente, dal d. lgs. n. 74/2015 di attuazione della direttiva 2009/138/Ce (c.d. “solvibilità II”).
La causa risiede nell’evoluzione della disciplina europea che regola il diritto dei mercati finanziari e, in particolare, nell’accelerazione impressa alle modifiche normative dalla crisi post Lehman. Questa, oltre all’effetto indotto di continui, spesso radicali mutamenti nei contenuti delle norme (testi unici e codici di settore) vigenti all’interno degli Stati nazionali (al punto da revocare in dubbio completezza e razionalizzazione delle raccolte normative), incide sulla stessa superfetazione degli emittenti e sul conseguente reciproco concorso nella produzione di regole giuridicamente vincolanti. È appena il caso di ricordare che, con la istituzione del Sistema europeo di vigilanza finanziaria (c.d. Sevif) introdotta da quattro regolamenti UE del 2010 (1092 – 1095/2010) vengono creati un organismo di vigilanza c.d. “macroprudenziale” (basata sulla BCE e sul sistema europeo di banche centrali, Sebc) che ha lo scopo di individuare preventivamente i fattori di rischio sistemico per fornire i relativi elementi di valutazione alle autorità nazionali ed europee e tre organismi di vigilanza c.d. “microprudenziale” (bancaria, mobiliare, assicurativa, con i noti acronimi di Eba, Esma, Eiopa), incaricati del coordinamento delle relative vigilanze nazionali. A ciò segue la più recente creazione dell’Unione bancaria europea, fondata sui tre pilastri del c.d. “meccanismo unico di vigilanza” (regolamento UE n. 1024/2013); del “meccanismo di risoluzione unico” (regolamento UE n. 806/2014); del sistema unico di garanzia dei depositanti (ancora da definire nel dettaglio) (Paglierini, Sciascia, 2015). Il sistema (pardon, il “meccanismo”) di produzione delle fonti del relativo diritto risulta perciò articolato in fonti primarie (regolamento UE n. 585/2013; direttiva 2013/36 e direttiva 2014/59) e fonti sub primarie (standard Eba adottati dalla Commissione europea), alle quali si aggiungono le linee guida Eba alle autorità di supervisione nazionali e le disposizioni della Bce. Completano il quadro le disposizioni delle autorità creditizie nazionali, sempre più numerose e complesse.
Non si può, infine, omettere di ricordare l’altrettanto imponente e rilevante reticolo normativo rappresentato – nel settore di riferimento – dalle fonti di autodisciplina e dalla c.d. soft law. Diritto “mite” solo nella corrente accezione semantica del termine, atteso che le innovazioni prospettate in importanti consessi sovranazionali, quali il Comitato per la vigilanza bancaria presso la Banca dei regolamenti internazionali (Bri), determinano poi l’adozione di vere e proprie norme di diritto europeo (es. i noti standard internazionali di vigilanza prudenziale e di solvibilità, non a caso noti come “Basilea” I, II, e III).
Questo inedito coacervo di discipline rivenienti da una pluralità di emittenti, pubblici e privati, rappresenta il riflesso di una società sempre più complessa nelle sue principali variabili economiche e, soprattutto, finanziarie. Sono, in Europa, aggravate dall’assenza di un disegno istituzionale organico; dalla mancanza di una unione politica; di una comune e condivisa carta costituzionale. Al pluralismo delle fonti si accompagna un continuo, magmatico, impetuoso mutamento delle leggi che governano il mercato finanziario. Ciò inevitabilmente incide sul più rilevante indice di certezza del diritto o, quanto meno, di prevedibilità delle conseguenze giuridiche dei comportamenti. Incide sulla stabilità delle leggi. È noto che la efficacia, soprattutto la effettività della legge a fini di regolazione del diritto dell’impresa e dei contratti del mercato finanziario, postula che la norma primaria, la cornice, sia caratterizzata da un elevato tasso di stabilità. La stabilità della legge è perciò un valore, una precondizione della sua effettività. L’osservanza diffusa e durevole delle regole di condotta preserva non solo gli usi, ma anche la legge dalla desuetudine. È valore sommo che consente alle stesse autorità di supervisione di perseguire con autorevolezza, con l’autorevolezza che loro deriva dall’agire in una cornice normativa nota, certa e condivisa, gli obiettivi della vigilanza, tra i quali per primo quello di un’altra stabilità; la stabilità del sistema finanziario. In siffatta guisa, la delegificazione (ovvero l’affidamento alla normazione secondaria del compito di provvedere all’ammodernamento della disciplina regolamentare al fine di dominare l’impetuoso cambiamento della sottostante realtà economica e fenomenica) postula, presuppone che la norma primaria, la cornice, sia caratterizzata da un elevato tasso di conoscibilità, accessibilità (donde la tecnica di testi unici normativi e codici di settore) e, appunto, stabilità. Le vicende recenti, sopra sommariamente descritte, procedono nell’opposta direzione del labirinto normativo per il tramite di una opaca (ri)allocazione di funzioni, una oscura semantica giuridica, della quale sono esempio evidente “i numerosi articoli del regolamento n. 575/2013 che contengono complicate formule matematiche per la misurazione dei rischi” (Capolino, 2015),un ossessivo livello di dettaglio.
La complicata acquisizione di tali nuove regole (tra gazzette più o meno “ufficiali”, siti web, fonti informative di nicchia), la loro conoscenza, la loro elaborazione e padronanza, la capacità di inseguire continui e magmatici mutamenti sconta elevati costi tanto diretti quanto, soprattutto, transattivi che intuitivamente eccedono (o, in ogni caso, mettono a dura prova) le possibilità del relativo investimento conoscitivo da parte di intermediari, imprese, professionisti di più ridotte dimensioni. Non viene, infatti, solo in gioco la articolazione quantitativa ma anche la stessa discutibile qualità delle nuove norme, tanto sotto il versante semantico quanto sotto quello della moltiplicazioni dei saperi.
Oltre che contorto, involuto, ossessivamente descrittivo, il linguaggio non è (non è più) veicolo di trasmissione di enunciati normativi quanto piuttosto vero e proprio tecno – linguaggio, sideralmente lontano dall’assetto ordinamentale al quale pure si ascrive. Al tecno – linguaggio (ma, più spesso, si tratta di vero e proprio linguaggio burocratico – gergale) si accompagna, come si è visto, la indicazione di formule matematiche, la rappresentazione di elementi patrimoniali e contabili, la disciplina di operazioni bancarie, finanziarie, attuariali. L’interpretazione e, prima ancora, la sola acquisizione del significato e degli scopi della norma sconta perciò il concorso di saperi complementari. Quello giuridico è manifestamente recessivo. È più che sufficiente la presenza del mero conoscitore delle leggi, certo non dell’interprete (che anzi inutilmente complica il processo decisionale). Essenziali sono invece l’esperto in contabilità e bilancio, il tecnico bancario, l’analista, eventualmente l’attuario e il matematico, soprattutto l’economista, ovviamente specializzato in finanza. L’assunto (che, nonostante la crisi, permane e si rafforza) è che l’economia sia politicamente neutra e regolata da proprie leggi naturali. I suoi sacerdoti sono pertanto dei tecnici i quali, in quanto conoscitori di quelle leggi e di quei meccanismi, rappresentano i soli in grado di interpretarli e declinarli correttamente.
Inutile dire che la conoscenza di un tale assetto regolamentare e la conseguente legittimazione dialogica tra i suoi attori diviene appannaggio di un sempre più ristretto insieme di operatori economici (solo coloro che siano in grado di dotarsi di corposi e costosi servizi studi) e di studi legali (meglio, di “imprese” di servizi giuridici).
Né sembra possibile, ceteris paribus, potersi ragionevolmente invocare un ruolo demiurgico di supplenza da parte della giurisdizione, atteso che “l’ormai inarrestabile processo d’interazione tra norme nazionali e sovranazionali” (Di Paola, 2015) abbraccia le stesse fonti giurisprudenziali. Senza omettere di ricordare, a fronte di una dottrina sempre più recessiva e avara di spunti sistematici anche in ragione del progressivo nichilismo giuridico indotto dalla sovranità mercatista (nonché da meccanismi organizzativi ibridi), il rischio dell’autoreferenzialità “di una giurisprudenza senza dottrina, perché fondata sulla dottrina delle corti”(Berruti, 2013).