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L'ACF e il suo raggio d'azione sugli illeciti dei consulenti finanziari*

Da più parti è stato sollevato il tema della competenza dell’ACF, come noto operativo da pochi mesi, in relazione a illeciti commessi da consulenti finanziari. Non può negarsi come il tema sia delicato, a maggior ragione ove l’ACF sia chiamato a giudicare di fatti che possano avere anche rilievo penale, o addirittura riguardo ai quali già un procedimento penale sia pendente. A differenza dell’ABF, vigilato da Bankitalia, la Consob ha deciso che nel caso del suo arbitro delle controversie finanziarie il suo giudizio possa camminare insieme con quello penale. Come evitare il rischio di un conflitto tra autorità giurisdizionale e ACF?

Raffaele Lener
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L’art. 4 della delibera Consob n. 19602/2016 prevede, come noto, che l’ACF è competente in merito alle “controversie fra investitori e intermediari …”. E la medesima delibera, all’art. 2, include espressamente nell’ambito di competenza dell’Arbitro “l’attività svolta per loro conto [i.e., per conto degli intermediari] da parte di consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede di cui all’articolo 31 del TUF”.

Non sembra dunque sussistere alcun dubbio, almeno in via di principio, circa la competenza dell’ACF in merito agli illeciti dei consulenti finanziari.

Secondo quanto previsto dal TUF e reso ancora più chiaro dalla Consob negli Esiti della consultazione, infatti, la condotta del consulente è direttamente riferibile all’intermediario e l’intermediario stesso risponde in solido nei confronti dei terzi dei danni arrecati dal consulente, anche nei casi in cui “tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale” (v. art. 31, comma 3, TUF).

È stato peraltro posto in luce come, di fronte a fatti (anche) penalmente rilevanti, si ponga la necessità di un’istruttoria più ampia di quella, veloce e documentale, prevista dinanzi all’Arbitro, dovendosi verosimilmente assumere prove testimoniali, quanto meno presso il cliente e presso il collaboratore infedele, acquisire fonti di conoscenza cui ha accesso solo il magistrato penale (tabulati telefonici ecc.), giudicare di un fatto illecito commesso da un collaboratore che non potrebbe neppure essere parte del procedimento, e così via.

Non vi è dubbio che non si possa tollerare la compressione del diritto di difesa delle parti, né che siano assunte decisioni basate su una valutazione parziale dei fatti.

Tutto ciò è corretto. Ma il problema, a mio avviso, non si risolve negando la competenza dell’Arbitro, quanto piuttosto evitando che l’ACF vada oltre l’ambito decisionale a esso affidato.

Altro è il giudizio dell’ACF, altro il giudizio del giudice, soprattutto penale.

Se non può evitarsi il rischio di contrasto fra giudicati, va evitato il rischio di confusione fra giudicati. E quest’ultimo rischio si evita, o quanto meno si attenua fortemente, tenendo presenti i limiti degli accertamenti condotti dall’ACF, che certamente non possono “condizionare”, né costituire “precedente” in sede di giudizio penale.

Si è anche detto che a essere violate potrebbero non essere, propriamente, regole di condotta intese strictu sensu, quanto norme proibitive presidiate da sanzione penale, tanto che in tali fattispecie di responsabilità non dovrebbe operare neppure l’inversione dell’onere della prova. Si tratta di argomento non facilmente affrontabile in termini generali e astratti. L’Arbitro dovrà analizzare caso per caso se la sua competenza sussista o se si sia fuori dall’ambito sottoposto al suo giudizio.

In sostanza, le osservazioni critiche sopra riportate colgono nel segno e certamente devono invitare l’ACF a decidere usando la massima cautela, tenendo sempre conto del fatto che, accanto alla cognizione necessariamente sommaria dell’Arbitro, sussiste quella piena del giudice (penale), che solo può compiutamente accertare fatti e responsabilità.

Ma la competenza a conoscere di questi fatti in capo all’ACF non può revocarsi in dubbio de iure condito, né può ipotizzarsi una istruttoria più complessa e articolata di quella ordinaria e tipica dell’Arbitro, evidentemente incompatibile con le esigenze di speditezza del giudizio che lo caratterizzano.

È interessante, al riguardo, la decisione n. 3961 del 23 novembre 2012 del Collegio di coordinamento dell’ABF, che ha affermato che la pendenza di un procedimento giurisdizionale penale esclude l’ammissibilità del ricorso all’ABF, a prescindere dalla costituzione o meno del cliente quale parte civile. La decisione precisa anche che nel caso in cui su tali fatti intervenga una sentenza definitiva torna a essere esperibile il ricorso davanti all’ABF, purché sussistano le ulteriori condizioni di ricevibilità.

La decisione dell’ABF, però, trova la sua ratio – almeno in parte – direttamente nelle Disposizioni della Banca d’Italia del 18 giugno 2009 (aggiornate nel novembre 2016) relative al funzionamento dell’Arbitro Bancario.

In particolare, l’art. 4 delle Disposizioni prevede che: “non possono essere proposti ricorsi inerenti a controversie già sottoposte all’autorità giudiziaria”.

Pertanto, la pendenza di un procedimento giurisdizionale è espressamente prevista dalle norme di funzionamento dell’ABF quale causa di non proponibilità del ricorso. E invero, l’elemento di rilievo della decisione citata è dato piuttosto dalla precisazione dell’irrilevanza della costituzione del cliente quale parte civile e dal fatto che il limite valga anche in riferimento a controversie per le quali sussista una c.d. connessione impropria (non è necessaria un’identità totale tra le controversie).

Una simile condizione di ammissibilità non è però prevista per l’ACF, considerato che l’art. 13 della delibera n. 19602/2016 si limita a fissare una causa di estinzione del procedimento a seguito dell’avvio di un procedimento giurisdizionale.

La pendenza di procedimenti giurisdizionali non è considerata quale causa di inammissibilità del ricorso all’ACF. Secondo quanto chiarito dalla Consob negli Esiti della consultazione (v. pag. 16), la mancanza di una siffatta previsione risponde a una scelta di politica legislativa della Consob stessa, che ritiene utile consentire il ricorso all’ACF anche in pendenza di procedimenti giurisdizionali.

In particolare, il documento relativo agli esiti della consultazione precisa che: “…si ritiene opportuno lasciare al ricorrente la facoltà di adire l’Arbitro pure in pendenza di eventuali procedimenti giudiziari o arbitrali, tenuto conto dei possibili vantaggi in termini di rapida risoluzione della controversia derivanti dal ricorso all’Arbitro stesso. Diversa è l’ipotesi contemplata dall’art. 13, comma 3, lett. a), [avvio del procedimento quale causa estintiva], in cui l’istante, in pendenza della procedura presso l’arbitro, decide di ricorrere all’arbitrato o all’Autorità giudiziaria, manifestando implicitamente l’intenzione di non proseguire la procedura presso l’Arbitro stesso.”

Dunque, almeno in via di prima approssimazione, non sembra possibile concludere che l’avvio del procedimento penale (che, per completezza, avviene con l’iscrizione della notizia di reato da parte del PM nel relativo registro) costituisca una causa ostativa all’avvio del procedimento dinanzi all’ACF. Come detto, ciò sembra non sostenibile alla luce della diversa disciplina sul punto dei due Arbitri. Piuttosto, l’avvio di un procedimento giurisdizionale e un successivo ricorso all’ACF sembrerebbe considerato un’ipotesi fisiologica dalla disciplina Consob sicché, in tal caso, i due procedimenti correrebbero su binari paralleli.

Come si accennava, una simile conclusione non può andare esente dai rischi che l’ABF ha evidenziato nella propria pronuncia (v. pag. 5-6) e relativi al pericolo di duplicazioni di rimedi e conflitti di decisioni tra autorità giurisdizionale e ACF.

Un possibile argine a tale problema sembra essere posto dall’art. 16 della delibera n. 19602/2016 in riferimento all’esecuzione delle decisioni dell’ACF. La norma infatti prevede espressamente che l’intermediario possa chiedere in ogni momento la pubblicazione sul sito dell’ACF delle informazioni circa l’avvio di un procedimento giurisdizionale avente a oggetto i fatti posti a base del ricorso o relative ai suoi esiti.

Dunque, l’intermediario può richiedere la pubblicazione sul sito dell’ACF delle sentenze a lui favorevoli, intervenute successivamente alla pronuncia dell’ACF. Ciò risolverebbe, quanto meno in punto di conoscibilità, il rischio, inevitabile, di soluzioni discordanti tra procedimento giurisdizionale e procedimento ACF.

Ci si può, infine, domandare se sussista un obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria da parte dell’ACF, ai sensi degli artt. 331 c.p.p. e 357 c.p..

L’art. 331 c.p.p. prevede, come noto, in capo a pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio un obbligo di denuncia in riferimento alle notizie di reato perseguibili d’ufficio apprese nell’esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio.

Ai sensi dell’art. 357 c.p. sono ricompresi nella definizione di “pubblico ufficiale” coloro i quali esercitano una pubblica funzione amministrativa, da intendersi quale funzione disciplinata da norme di diritto pubblico (c.d. delimitazione esterna) e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi (c.d. delimitazione interna).

In difetto di precedenti, deve evidenziarsi quanto meno il dubbio che l’ACF sia tenuto a denunciare all’autorità giudiziaria le notizie di reato perseguibili d’ufficio.

*Va doverosamente premesso che chi scrive è componente dell’Arbitro, ma qui esprime valutazioni che sono esclusivamente di natura personale

 

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