Gli strumenti finanziari di tipo partecipativo, che il diritto societario ha consentito di emettere alle s.p.a., faticano a partire. Tale difficoltà è ascrivibile, a ben vedere, alla genericità della norma che non rende agevole capire quali diritti possano essere attribuiti ai portatori di siffatti strumenti.
1. Come è noto, la riforma del diritto societario ha consentito alle s.p.a. di emettere, accanto ad azioni e obbligazioni, strumenti finanziari. L’idea del legislatore era quella di ampliare la platea dei potenziali finanziatori delle imprese, creando strumenti ibridi (a metà fra azioni e obbligazioni), che potessero suscitare interesse fra gli investitori. Dopo dieci anni (abbondanti) questi nuovi strumenti ancora faticano a partire.
Perché?
L’art. 2346, comma 6, c.c. consente alla società di emettere strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali “o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nell’assemblea generale” a fronte di apporti, da parte di soci o di terzi in generale, anche di opera o servizi. Si tratta, dunque, di apporti che non costituiscono conferimenti e che “non conferiscono, né arricchiscono la condizione sociale”. E’ lo statuto a doverne disciplinare modalità di emissione e contenuti, nonché a prevederne la legge di circolazione, ove ne sia consentito il trasferimento
La norma apre la strada a una pluralità di fattispecie, per certi versi forse più ampie ancora, o comunque più modellabili, delle stesse categorie di azioni, i cui limiti di emissione non trovano applicazione agli strumenti che chiameremo partecipativi.
2. La verità è che non è facile capire quali diritti di amministrazione possono essere attribuiti ai portatori di siffatti strumenti.
Non è dubbio che possano essere attribuiti agli strumenti partecipativi diritti di informazione; ad es., consultazione dei libri sociali, richiesta di informazioni, diritto di rinvio dell’assemblea per mancanza di informazioni sufficienti, anche poteri ex art. 2408 c.c.; in questa chiave forse anche l’intervento meramente passivo in assemblea, che pone peraltro dubbi di compatibilità non già con l’art.2346, quanto con la nuova formulazione dell’art. 2370 c.c., sulla connessione apparentemente necessaria fra intervento e voto.
Più complesso è il discorso per i diritti di partecipazione.
La norma infatti, come si è visto, consente di attribuire genericamente diritti amministrativi, che spetterà allo statuto definire, con il solo limite della non attribuzione del “voto nell’assemblea generale degli azionisti”. E’ il caso di dire che “diritto amministrativo” non è definizione se non a contrario: vi rientra qualunque diritto che non sia qualificabile (esclusivamente) come “diritto patrimoniale”. La legge, per la verità, non definisce neppure il concetto di assemblea generale, ma lo deduciamo anche qui a contrario dall’art. 2376 c.c.: è generale l’assemblea non destinata a singole categorie.
Agli strumenti finanziari possono essere attribuiti diritti amministrativi insieme a diritti patrimoniali, o anche solo diritti amministrativi. L’espressione usata dal legislatore non è particolarmente limpida [“forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi”], tanto da lasciare il dubbio che siffatti strumenti debbano essere sempre dotati di diritti patrimoniali ed eccezionalmente possano recare anche diritti amministrativi. Non vedrei, però, ragioni sistematiche per escludere l’ammissibilità di strumenti che attribuiscano esclusivamente diritti corporativi. In un caso siffatto –probabilmente destinato a essere confinato fra le ipotesi teoriche- dovrebbe essere consentito il trasferimento degli strumenti finanziari, per permettere al possessore (almeno) di trarre profitto dalla loro cessione.
3. Il divieto del voto nelle assemblee generali non è di agevole interpretazione, alla luce del successivo art. 2351, comma 5; e anzi appare viziato da un evidente difetto di coordinamento con quest’ultima norma.
Infatti, ai sensi dell’art. 2351, comma 5, gli strumenti finanziari partecipativi possono essere dotati del voto su argomenti specificamente indicati e in particolare può essere loro riservata la nomina di un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco.
Sono previsioni, in effetti, inconciliabili, se non svuotando parzialmente di significato tecnico il divieto dell’art. 2346, trasformandolo, nei limiti che vedremo, in una enunciazione di principio di carattere generale.
Non appare invero condivisibile una lettura dell’art. 2351 che limiti il voto dei portatori degli strumenti finanziari alle assemblee speciali. Quando la legge parla di “voto”, senza ulteriori specificazioni, necessariamente si riferisce all’assemblea (se vogliamo, generale) dei soci. In più, il voto nell’assemblea speciale non avrebbe ragione di essere espressamente attribuito, considerata la previsione dell’art. 2376 c.c. Ancora, il voto nell’assemblea speciale, avendo funzioni di tutela dei diritti di categoria, non potrebbe certo essere limitato ad “argomenti specificamente indicati”.
Parimenti, il voto non può essere ridotto a mera dichiarazione consultiva. Se il legislatore avesse voluto prevedere una consultazione dei possessori di strumenti finanziari non avrebbe dovuto usare il termine “voto”.
Né più senso avrebbe leggere la norma come se parlasse di designazioni extra assembleari di componenti degli organi sociali: l’art. 2351 contempla l’attribuzione del diritto di voto, che è tipicamente diritto da esprimersi nell’assemblea.
E che non sia inammissibile la partecipazione dei portatori di questi strumenti all’assemblea “generale” lo dimostra la norma, meglio scritta, che prevede espressamente la possibilità anche per le società cooperative di emettere strumenti partecipativi. Si legge, infatti, nell’art. 2526, comma 2, c.c., che “ai portatori di strumenti finanziari non può, in ogni caso, essere attribuito più di un terzo dei voti spettanti all’insieme dei soci presenti ovvero rappresentati in ciascuna assemblea generale”.
Quanto agli argomenti specifici per i quali può essere previsto il voto di questi soggetti, si può solo dire, allo stato, che deve naturalmente trattarsi di materie di competenza assembleare, non di competenza gestoria degli amministratori.
Sembra, piuttosto, corretto dire che l’estensione degli “argomenti specifici” su cui possono votare i portatori di strumenti partecipativi non deve essere tale da svuotare la riserva in via di principio ai soci del diritto di voto in termini generali (che è il vero senso da attribuire alla indicazione dell’art. 2346, comma 6): dunque non tanto divieto di votare in sede di assemblea, appunto, generale, ma divieto di attribuire portata generale al voto dei possessori di strumenti finanziari partecipativi.
L’esclusione del voto nella “assemblea generale degli azionisti” va perciò letta non già con riferimento all’organo, ma alla generalità delle sue competenze, sostituita dalla specifica indicazione di argomenti particolari.
Va notato, da ultimo, che la legge non introduce una regola di proporzione con il voto degli azionisti, sì che ove voto delle azioni e voto degli strumenti finanziari concorrano, in sede di assemblea “generale”, sarà lo statuto a doverne tarare i relativi “pesi” (con criteri, peraltro, tutt’altro che semplici da disegnare, essendo liberamente ammessi anche apporti di opera o servizi, come si è visto).
4. Il componente dell’organo amministrativo o di controllo la cui nomina può essere riservata ai portatori di strumenti partecipativi deve ritenersi dotato di pieni poteri, non cioè un “mini-amministratore” o “mini-sindaco”. Si prevede solo che sia “indipendente”, dunque fornito dei requisiti legali, appunto, di indipendenza (quelli dell’art. 2399 c.c. o altri eventualmente applicabili), ma non si esclude neppure che possa essere dotato di poteri “esecutivi”.
La norma neppure chiarisce se, in presenza di più categorie di strumenti finanziari, lo statuto possa accordare a ciascuna di esse il potere di nomina di un amministratore o sindaco indipendente, né chiarisce se, in tal caso, vi sia comunque un limite massimo ai componenti non eletti dai soci. Di nuovo una lacuna legislativa, e non di poco momento.
La lettura secondo cui la maggioranza dei membri degli organi sociali debba necessariamente essere espressa dai soci a ben vedere non convince, con riferimento a uno schema organizzativo smontabile e flessibile come quello delle s.p.a. “moderne”. D’altronde, non se ne troverebbe agevolmente fondamento normativo.
Forse, l’unico argomento impiegabile per circoscrivere la portata del potere di nomina degli organi sociali attribuibile ai portatori degli strumenti finanziari è quello formale ricavabile da una lettura rigida dell’art. 2351, comma 5, là dove si dice che “può essere ad essi riservata, secondo modalità stabilite dallo statuto, la nomina di un componente indipendente (…)”. Per questa via si arriverebbe a dire che il numero complessivo di siffatti esponenti indipendenti non potrebbe comunque essere superiore all’unità, con conseguente necessità di individuare meccanismi di elezione unitari, in caso di pluralità di categorie di strumenti finanziari. Non può peraltro negarsi come l’argomento letterale appaia un po’ debole in relazione a norme così poco chiare e lacunose.
5. Altro dubbio è – si accennava – se gli strumenti finanziari possano essere dotati del diritto di intervento in assemblea, dato che l’art. 2346 c.c. esclude per essi – e nei modi indicati – il solo voto. La risposta positiva si scontrerebbe con l’art. 2370, comma 1, c.c., per il quale possono intervenire in assemblea solo “coloro ai quali spetta il voto”. Il problema ha naturalmente valenza generale. Qui peraltro si potrebbe anche accogliere la soluzione più ampia, in ragione della portata informativa di una partecipazione passiva dei possessori di strumenti finanziari.
Dubbio è pure se si possa attribuire ai portatori di strumenti finanziari partecipativi diritto di impugnativa, naturalmente solo per gli argomenti su cui hanno diritto di voto. Vero è che l’art. 2377 parla solo di impugnativa dei soci, ma si potrebbe forse provare a superare il limite formale, facendo perno sulla logica connessione fra voto e impugnativa. Si tratta, però, a mio avviso, di suggestione da respingere in termini generali, per insuperabili problemi tecnici: si pensi, a tacer d’altro, alla pratica inapplicabilità del limite minimo di possesso azionario di cui al terzo comma dell’art. 2377.
E’ ragionevole, dunque, pensare che al voto degli strumenti finanziari non consegua, nel silenzio dello statuto, diciamo per default, l’impugnazione. Non mi sentirei però di escludere del tutto che lo statuto possa prevederlo – d’altro canto il ricordato limite quantitativo è certamente derogabile statutariamente – regolandone, in questo caso, le modalità di esercizio e in particolare i criteri di legittimazione.
6. In conclusione. Un’innovazione legislativa dai contorni poco chiari.
Difficile proporre simili strumenti innovativi al mercato quando sono così tante, e così profonde, le incertezze sui diritti che possono attribuire agli investitori.