Le chiamano aziende “zombie”. Sono le aziende per cui è un problema costante affrontare la restituzione dei prestiti alle banche. In particolare vengono così catalogate le imprese che hanno almeno dieci anni di vita e i cui profitti per tre anni di seguito non sono riusciti a coprire gli interessi sui prestiti contratti. Quindi andrebbero profondamente ristrutturate, o messe fuori dal mercato. Sono loro, dice uno studio appena sfornato dall’Ocse, tra i grandi responsabili della bassa produttività di un paese. Anzi, dell’intera area Ocse, dove hanno mostrato negli ultimi anni una inaspettata capacità di sopravvivenza, e di resistenza al naturale avvicendamento con imprese più dinamiche e con tecnologie più moderne. Perché è successo?
Il numero delle zombie è strettamente legato alla debolezza del sistema bancario e alle incertezze delle procedure concorsuali, e dall’inizio della crisi il loro peso sull’economia è schizzato in alto in molti paesi, con punte significative in alcuni. In Italia, per esempio, come pure in Grecia e in Spagna. Cioè in quell’Europa del Sud che da sempre è additata come il peso morto del Continente.
Qual è l’addebito principale che lo studio Ocse fa alle società zombie? Che assorbono quote di capitale che resta così improduttivo, togliendone la disponibilità ad altre imprese più sane e dinamiche. Insomma, rendono l’ambiente economico asfittico, costringendo i nuovi entranti potenziali a restare fuori della porta.
Non solo. L’esistenza delle imprese zombie, improduttive e arretrate, condiziona anche l’ambiente del business nel suo complesso: primo, riduce il rendimento di altri potenziali progetti di investimento, inoltre inflaziona le retribuzioni rispetto alla produttività e deprime la redditività di quell’attività. Secondo: restringe i cordoni del credito anche alle imprese sane (come ha dimostrato uno studio Ocse-Bce).
Le imprese “morti-viventi” coinvolgono nel loro cerchio vizioso anche il sistema bancario del paese, rendendolo meno efficiente. Alcune banche tendono infatti a restare inerti di fronte all’azienda che non ripaga i suoi debiti senza avere una prospettiva di mercato, preferendo ristrutturare la linea di credito invece di esigere indietro i soldi o di spingere l’azienda il più rapidamente possibile alla chiusura.
Il tema zombie si intreccia quindi con quello degli Npl, di cui non a caso l’Italia ha una quota record (ce la battiamo con l’India). Nel nostro paese la quota di capitale “sequestrata” dalle aziende in questione è salita dal 7 al 19 per cento dal 2007 al 2013 (in Grecia è il 28 e in Spagna il 16) e questo ha fatto sì che a quelle sane le risorse di capitale disponibili siano state inferiori del 6 per cento rispetto al fabbisogno. Per di più la ricerca Ocse avanza il sospetto che le banche non abbiano incentivi a gestire gli Npl per non rischiare di materializzare perdite in bilancio spingendo le zombie a fallire, preferendo invece rinverdire i prestiti alle imprese più deboli. Una scommessa sulla possibilità delle zombie di “resuscitare” che il mondo del credito si può permettere proprio per via dei tassi molto bassi.
Quali policy si possono mettere in campo per correggere il fenomeno?
Un ruolo chiave lo rivestono le procedure concorsuali. Nella maggior parte dei paesi queste oggi hanno senz’altro abbassato quelle barriere che impedivano l’uscita dal mercato delle imprese inefficienti e improduttive, ma molto c’è ancora da fare (il paper indica 13 punti su cui intervenire).
Anche il sistema di finanziamento delle imprese più innovative può offrire un antidoto alle zombie: lasciando più spazio al venture capital rispetto al canale bancario tradizionale, e lavorando sul fronte fiscale, che oggi agevola il debito finanziario rispetto alla Borsa.
Certo, scacciare le imprese zombie ha anche un costo sociale in termini di posti di lavoro. Inoltre le ricerche dimostrano che la possibilità di reimpiego entro un anno dei lavoratori provenienti da un’impresa che ha tagliato è del 70 per cento in Svizzera e Danimarca e del 50 in Grecia e Spagna. Su questo fronte l’Ocse non ha la bacchetta magica. Serve mettere in campo una serie di politiche attive per il reimpiego, dice lo studio, ma con l’evidenza che togliere le barriere alla nascita di nuove imprese in grado di stare sul mercato aumenta comunque le chance dei disoccupati.
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