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Scheme of arrangement: un nuovo strumento per la ristrutturazione dei debiti?

Il panorama giuridico italiano è privo di uno strumento di impostazione marcatamente contrattualistica che consenta all’impresa di virare verso il risanamento prima della conclamata insolvenza, in tempi brevi e vincolando anche le minoranze dissenzienti. Il diritto inglese offre, invece, un meccanismo noto come "scheme of arrangement" con cui l’impresa ha la possibilità di ristrutturare a maggioranza il suo indebitamento finanziario e rendere vincolante l’accordo anche per i creditori dissenzienti.

Flavio Ciotti
Ciotti

1. Considerazioni introduttive

Il diritto fallimentare, recentemente, è stato sottoposto ad una serie di interventi significativi, in particolare sulla disciplina del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti. L’obiettivo era quello di dar vita, in un panorama di diffusa sofferenza economica, a strumenti più snelli, efficaci e funzionali per le imprese in difficoltà.

In realtà, la fisionomia – seppur nuova – degli istituti appena citati, spesso non è stata in grado di rispondere alle esigenze proprie delle società in sofferenza.

Se è vero che l’accordo di ristrutturazione dei debiti (ex art. 182-bis l. fall.) permette alla società proponente di (ri)negoziare vis-à-vis con i creditori i termini della ristrutturazione e di ottenere l’omologazione con il consenso dei creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, esso tuttavia non vincola i creditori dissenzienti. La necessità di soddisfare per intero (e entro massimo 180 giorni dalla scadenza) i creditori non aderenti o contrari all’accordo, favorisce la formazione di gruppi ostili e fa degli accordi di ristrutturazione dei debiti una soluzione “spuntata” per l’impresa in crisi.

Viceversa, il concordato preventivo permette una sorta di cd. cram down dei creditori dissenzienti e necessita dell’approvazione della (sola) maggioranza dei creditori ammessi al voto (art. 177 l. fall.), ma si tratta di un istituto ad impronta marcatamente pubblicistica. Si pensi, ad esempio, al ruolo svolto dall’autorità giudiziaria nel corso della procedura concordataria; i vari controlli, formali e sostanziali, che il giudice delegato è chiamato a svolgere (tra cui la verifica sulla fattibilità economica dell’operazione, sulla effettiva realizzabilità del piano, ovvero la possibilità di adottare provvedimenti di revoca all’ammissione ex art. 173 l. fall.), così come la presenza del commissario giudiziale, figura preposta al controllo su tutta l’attività svolta dal debitore, permeano tutto l’iter concorsuale – il quale, inter alia, è tutt’altro che breve – e non costituiscono certo un incentivo ad intraprendere il percorso (tortuoso) che può condurre al risanamento.

Non è questa la sede per procedere ad una approfondita disamina dello strumento concordatario. È ovvio però che tali elementi non si pongono in armonia con la celerità e l’efficienza richieste in queste situazioni, tanto più se i Tribunali si sono mostrati pronti alla revoca senza troppi patemi d’animo e (soprattutto) prescindendo dal valutare il singolo atto (ritenuto meritevole di revoca) nell’articolato complesso della procedura.

Così inquadrata la questione, ciò che manca nel nostro panorama giuridico è uno strumento di impostazione marcatamente contrattualistica che consenta all’impresa di virare verso il risanamento prima della conclamata insolvenza, in tempi brevi e vincolando anche le minoranze dissenzienti.

2. La possibile soluzione

La recente introduzione in Francia della procedura di “sauvegardes financière accélérées” che permette ad imprese fortemente esposte verso i finanziatori, entro un orizzonte temporale ristretto (un mese), di ottenere l’omologazione dell’“accord de conciliation” anche a scapito delle minoranze dissenzienti, ha tentato di rispondere proprio a tali esigenze.

Il diritto inglese, per parte sua, offre un meccanismo snello, rapido e di stampo prettamente contrattualistico (che ha fatto scuola in Francia e in Spagna): lo scheme of arrangement [1] . Si tratta di uno strumento cui l’impresa ha accesso prima ed indipendentemente dallo stato d’insolvenza, attraverso il quale è possibile ristrutturare a maggioranza l’indebitamento finanziario della società e rendere vincolante l’accordo anche per i creditori dissenzienti.

L’accordo in sé può avere qualsiasi contenuto. Il più comune utilizzo degli scheme è legato alla ristrutturazione dell’indebitamento finanziario attraverso la rinegoziazione delle condizioni relative all’ammontare del debito, al tasso d’interesse o alla proroga della scadenza del finanziamento (cd. amend to extend). Tuttavia, proprio perché le caratteristiche dell’accordo non sono predefinite né necessariamente legate ad una ristrutturazione, gli scheme sono stati utilizzati anche nel contesto di fusioni, acquisizioni, scissioni e riorganizzazioni interne.

Per ottenere l’omologazione della High Court britannica, lo scheme deve risultare approvato da una maggioranza semplice di soci o creditori che rappresentino almeno il settantacinque per cento del valore dell’indebitamento o delle partecipazioni. Inoltre, coloro che non votano sulla proposta di accordo non sono considerati ai fini del calcolo delle relative maggioranze, pertanto un accordo può essere validamente approvato sulla base del voto favorevole di soci o creditori che rappresentano meno del cinquanta per cento della compagine sociale o del valore complessivo dell’indebitamento.

Posto che si tratta di uno strumento spesso utilizzato da società straniere, sorge spontaneo chiedersi se ed in che misura le Corti inglesi possano ritenersi competenti. Sul punto, la giurisprudenza d’oltremanica ha chiarito come, quantomeno con riferimento agli scheme finalizzati al risanamento, le uniche condizioni che debbono essere soddisfatte perché il giudice inglese sia competente sono: (i) che si tratti di una società “liable to be wound up under the Insolvency Act 1986” – e possono essere liquidate anche società unregistred, cioè non inglesi – e (ii) che vi sia una “sufficient connection” con l’Inghilterra, la quale non deve essere necessariamente rappresentata dalla presenza di asset sul territorio inglese, né dallo svolgimento d’attività d’impresa in Inghilterra. Anzi, i Tribunali sono soliti ritenere che la semplice soggezione del contratto di finanziamento al diritto inglese sia idonea ad integrare il requisito della “sufficiente connessione”.

La sussistenza dei requisiti appena citati e delle maggioranze richieste, conduce all’omologazione dell’accordo in tempi davvero ristretti (alcuni scheme hanno visto l’approvazione in poco più di un mese), il quale diviene immediatamente vincolante per tutti i creditori, inclusi i dissenzienti.

Come accennato – e come suggerisce la collocazione dell’istituto in esame nell’ambito delle norme generali in materia di diritto commerciale (Companies Act) –, non si tratta di una procedura concorsuale e non presuppone che la società versi in uno stato di crisi o insolvenza. Tale peculiarità permette agli amministratori di agire prima che la situazione finanziaria dell’impresa si aggravi. D’altronde, la tempistica delle operazioni di ristrutturazione è cruciale: quando la società è insolvente, vale a dire “non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” (art.. 5, co. 2 l. fall.), si trova ormai in una situazione di fatto difficilmente reversibile ed ha poco margine di manovra. Anticipare la crisi e rinegoziare il debito prima che esso diventi a tal punto insostenibile da condurre inevitabilmente ad esiti infausti, diviene un’esigenza imprescindibile.

Altrettanto rilevante risulta, nella pratica, la possibilità di vincolare i creditori dissenzienti ai termini dell’accordo. Si pensi ai finanziamenti cd. in pool, vale a dire concessi congiuntamente da un gruppo di banche e/o altri intermediari finanziari legati fra loro, sempre più frequenti nel panorama finanziario internazionale (perché permettono alle società di ottenere liquidità eccedente il merito creditizio individuale ed ai finanziatori di frazionare il rischio). Ebbene, non di rado il mutamento delle condizioni di prestito può avvenire esclusivamente con il consenso unanime di tutti i finanziatori in pool. In tale contesto, la difficoltà di ottenere l’unanimità dei consensi può essere superata proprio attraverso lo strumento in esame, vale a dire attraverso l’imposizione del mutamento delle condizioni di prestito anche alla minoranza dissenziente dei finanziatori. D’altronde, fintanto che le sofferenze finanziarie della società si alleviano, ne beneficiano, a lungo termine, tutti i creditori.

L’utile fisionomia dello scheme e la “open door policy” delle Corti inglesi sulla competenza hanno contribuito al successo nell’utilizzo dello strumento anche in Europa. E’ stato stimato che, al febbraio 2007, dei circa 80 scheme proposti da società non ancora insolventi (c.d. “solvent schemes”), il 52% riguardasse società non inglesi (33% delle quali provenienti dall’Europa continentale, principalmente operative nei settori assicurativi e riassicurativi). In Italia il leading case è quello di Seat Pagine Gialle S.p.A., che ha utilizzato lo scheme nel 2012 per ottenere una proroga della data di scadenza del debito.

3. La compatibilità degli scheme con il diritto italiano

Prescindendo dalle varie e rilevanti criticità di cui l’istituto è circondato (tra le quali spiccano quelle relative alla giurisdizione del giudice inglese – poiché spesso l’unico legame tra la società che beneficia dello scheme e l’Inghilterra è costituito dal fatto che i contratti di finanziamento sono retti dal diritto inglese – e all’applicabilità del Reg. n. 1346/2000 (sulle procedure d’insolvenza) e n. 44/2001 (sulla competenza, riconoscimento [2] e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale)), ciò che più interessa in questa sede, è solamente una delle varie problematiche che investono lo strumento. In particolare, cioè, se una procedura che permette a una società di modificare (in peius)i diritti dei suoi creditori con il consenso

della sola maggioranza di essi (come quella in esame), sia principio conforme al nostro ordinamento e non soltanto all’interno del panorama concorsuale. Infatti, come sopra precisato, gli scheme of arrangement non sono una procedura d’insolvenza.

Ebbene, vari indici normativi depongono in senso affermativo.

Anzitutto l’art. 2415, co. 1, n. 2) c.c., in tema di modifica, a maggioranza degli obbligazionisti, delle condizioni del prestito obbligazionario. Nell’alveo di tale disposizione rientra il potere di deliberare mutamenti sostanziali del rapporto originario, quali quelli che attengono alla misura degli interessi, alla rinuncia a parte delle garanzie o alla proroga del rimborso. Una lettura del dato normativo in esame contemperata con la natura propria dei titoli obbligazionari, induce a ritenere che l’unico limite alle deliberazioni di modificazione delle condizioni di prestito sembra essere quello relativo al rimborso del capitale; d’altronde, se fosse diversamente, si giungerebbe a snaturare piuttosto che modificare – e sulla base delle stesse considerazioni non sono ammissibili modifiche alle caratteristiche tipologiche dei titoli emessi, come la soppressione del diritto di conversione. Per il resto, quasi la totalità dei termini e condizioni del prestito sono ipoteticamente rinegoziabili a maggioranza, incluse, oltre quelle appena citate, le ipotesi di prolungamento della scadenza dei titoli, di temporanea sospensione del pagamento degli interessi o, al limite, anche d’integrale rinuncia all’onerosità del prestito.

Si tratta, all’evidenza, di modifiche invasive del rapporto tra società e obbligazionisti, per le quali è irrealistico pensare di ottenere l’unanimità dei consensi. È per tale ragione che il Codice civile ha sposato il principio del sacrificio della minoranza.

In altre parole, se la società emittente è in condizioni di obiettiva difficoltà patrimoniale e la ristrutturazione dei prestiti obbligazionari si prospetta come concreta possibilità di contribuire ad invertire la rotta, è naturale che tale decisione debba essere presa a maggioranza e vincolare la minoranza dissenziente. D’altronde, se è vero che la partecipazione al capitale di debito rimane ben distinta dalla partecipazione al capitale di rischio, è altrettanto vero che anche gli obbligazionisti, entro certi limiti, sottostanno al rischio dipendente dai risultati economici della società e dunque si espongono alla eventualità che una rinegoziazione sia necessaria.

Insomma e indipendentemente dai confini applicativi della previsione, il senso di essa giace nella possibilità di permettere alla società di modificare le condizioni del rapporto che essa contrattualmente intrattiene con ogni singolo obbligazionista per mezzo di una decisione a maggioranza. A ben vedere, si tratta della stessa ragione ispiratrice tutto l’istituto dello scheme of arrangement, il quale serve l’obiettivo del risanamento e si spinge oltre le dinamiche d’interesse individuale o di minoranza. Difatti, obbligazionisti e società emittente, se pure in astratto portatori d’interessi confliggenti, arrivano ad avere una posizione “omogenea” quando la società versa in difficoltà economiche; l’interesse al risanamento è comune, e la rinegoziazione del prestito porta ad ottenere il massimo nei limiti delle possibilità della società.

Lo stesso può desumersi dall’art. 2376 c.c.: “se esistono diverse categorie di azionisti o strumenti finanziari che conferiscono diritti amministrativi, le deliberazioni dell’assemblea, che pregiudicano i diritti di una di esse, devono essere approvate anche dall’assemblea speciale degli appartenenti alla categoria interessata”. E disposizioni simili sono incorporate negli artt. 2411, co. 3 c.c. e 2477-octies c.c., in tema di estensione della disciplina delle obbligazioni, rispettivamente, a tutti gli strumenti finanziari “comunque denominati” che, pur non corrispondendo al tipo obbligazione, trovino causa in operazioni di finanziamento e a strumenti finanziari collegati a patrimoni destinati ad uno specifico affare.

Si tratta di disposizioni che, più o meno direttamente e attraverso l’art. 2415 c.c., permettono modifiche dei diritti dei creditori della società e costituiscono la conferma della non contrarietà degli scheme of arrangement all’ordinamento italiano.

Altrettanto potrebbe affermarsi da un rapido sguardo al diritto fallimentare. Lo stesso istituto del concordato preventivo che, una volta omologato, è obbligatorio per tutti i creditori della società (art. 184 l. fall.), non è altro che la trasposizione pratica del principio per il quale la società debitrice beneficia della possibilità di modificare (non l’an ma) il quantum del credito vantato nei suoi confronti.

Considerazioni conclusiv

Tirando le fila del breve percorso argomentativo appena tracciato, possiamo anzitutto affermare con sicurezza che non è contemplato, dal diritto italiano, uno strumento a disposizione delle imprese in difficoltà (ma non insolventi) che permetta di ristrutturare l’indebitamento finanziario a maggioranza e vincolante anche per i creditori dissenzienti.

Dal momento che, per ovviare a tale mancanza, alcune società hanno scelto di utilizzare lo scheme of arrangement inglese, si è posto un problema di compatibilità del sanction order britannico con il diritto italiano e ci si è domandati se il nostro ordinamento riconosce come principio fondamentale che i diritti creditori di determinate categorie di soggetti non possano subire modifiche senza il loro consenso – se non durante una procedura d’insolvenza –, posto che si tratta del principio cardine su cui si fonda lo scheme. La risposta sul punto è certamente negativa.

Il sanction order di uno scheme of arrangement è dunque compatibile con il nostro ordinamento. Ciò non significa chiaramente che esso costituisce un rimedio miracoloso e privo di qualsiasi criticità. Si è già accennato ai problemi sorti in ordine alla giurisdizione del giudice inglese nonché a quelli relativi al riconoscimento degli effetti dello scheme in altri stati. Tali questioni, tuttavia, necessiterebbero di una trattazione a parte.


[1] Disciplinato nel Companies Act (“CA”) del 2006, è definito come “a compromise or arrangement … between a company and its creditors, or any class of them, or its members, or any class of them” (CA, §895-901).

[2]Si pensi, ad esempio, al caso Equitable Life (Re [2002] EWHC 140), nel quale una Corte d’Appello Regionale tedesca (Oberlandsgericht), nel 2009, si è rifiutata di riconoscere gli effetti dello scheme in Germania poiché il sanction order della Hight Court non è stato considerato come “decisione” ai sensi dell’art. 33 del Reg. 44/2001. Più precisamente, la Corte ha ritenuto che il Tribunale inglese non avesse svolto un ruolo propriamente decisionale, quanto piuttosto privo di discrezionalità e di mera formalizzazione di un accordo già sostanzialmente raggiunto, di talché l’omologazione non poteva trovare riconoscimento in Germania né spiegarvi alcun effetto. Si tratta dell’unico precedente che ha negato il riconoscimento dell’omologazione di uno scheme fuori dall’Inghilterra e non sembra, almeno sinora, aver inaugurato un filone giurisprudenziale impostato sulla interpretazione appena citata.

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