La nomenklatura sta alzando le barricate: per loro il cambiamento può attendere. Ecco l’Italia del rinnovamento nimby, dappertutto purché non nel mio cortile
Dice di puntare sul cambiamento, che vuole rivoltare l’Italia come un calzino, che “dopo” nulla sarà più come prima. Per ora annuncia, propone, ma bisogna dargli un po’ di tempo per vedere se riesce a realizzare quelli che per ora sono solo progetti.
Intanto va registrato un fenomeno inquietante: la nomenklatura non è disposta a farsi da parte spontaneamente. Chi può resta abbarbicato alla sua posizione di potere. E si àncora al posto con tutta la forza e con tutti gli strumenti di cui dispone. Chi aspira a conquistarne una non si pone il problema di essere “stagionato”, nel senso dell’età, ma anche uomo o donna per tutte le stagioni. Le cronache sono piene di esempi. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Si può cominciare dai manager pubblici. E in particolare da uno, tutto sommato, minore, almeno in questa fase. Franco Tatò, 82 anni, è amministratore delegato della Treccani. Scade ma non vuole saperne di andar via. Punta i piedi costringendo il consiglio di amministrazione a dargli il benservito ingloriosamente. Senonché la toppa è peggio del buco perché il suo posto sarà preso come direttore generale da Massimo Bray, ministro dei Beni culturali del governo Letta, ed ex direttore editoriale della Treccani stessa. Alla faccia della legge che disciplina i conflitti di interesse dei ministri quando esauriscono il loro mandato.
Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni dopo tre mandati alla società petrolifera e uno all’Enel, sta organizzando una specie di Fort Alamo, a base di pronunce del Cda, di pareri legali, di prese di posizione degli investitori istituzionali pur di rimanere al suo posto. Non gli garba di essere discriminato “solo” perché condannato in primo grado per una vicenda relativa a un impianto Enel a Porto Tolle (ma nel 1996 ha già patteggiato una condanna di un anno e sei mesi per corruzione quando era alla Techint). Sui giornali non si è mai parlato tanto di Eni come in queste settimane. Persino l’esito della crisi in Ucraina sembra che dipenda da Scaroni.
E la Confindustria che si impanca un giorno sì e l’altro pure a raccomandare rinnovamento, innovazione, accountability, best practice e via dicendo, chi sceglie per la guida di quella che, ci si aspetta, sia la sua punta di diamante nell’era delle tecnologie della Rete, e cioè Confindustria digitale? Elio Catania, 68 anni, un passato alla guida della filiale italiana di Ibm, passaggi ingloriosi alle Ferrovie dello Stato (si ricorda soprattutto la ricca buonuscita), all’Atm di Milano (il sindaco di Milano Giuliano Pisapia lo silurò anche per il suo ingiustificatamente lauto stipendio), fino al triste episodio di qualche mese fa quando la procura di Roma lo ha accusato, come consigliere di amministrazione di Telecom Italia, di aver passato al Messaggero informazioni riservate che hanno provocato forti oscillazioni del titolo. E per questo è stato costretto a dimettersi dal Cda: un fatto che in Italia accade, letteralmente, a ogni morte di Papa.
E ancora: sono state giudicate idonee 66 candidature al vertice dell’Ufficio di bilancio, la nuova authority che dovrà controllare i conti pubblici. Un posto mica da ridere, quindi. Ebbene Umberto Bertini (un’aziendalista!), Guido Rey, Maria Teresa Salvemini e Paolo Savona, tutti e quattro classe 1936, non hanno esitato a presentare il loro rispettabilissimo curriculum. Che peraltro risulta assai qualificato rispetto a quelli dei numerosi politici trombati e di più giovani professori che tra le lingue parlate inseriscono il “sardinian” (sic, in english!).
Povero Renzi. Dove vuole andare in questa Italia degli immarcescibili? Del rinnovamento nimby? Avrà il suo bel daffare a staccare tutte queste ventose dalle poltrone. Sempre che riesca a individuare volti nuovi degni di prenderne il posto. Che non siano solo fluent in sardinian.